Lo statuto dei lavoratori per i diritti nelle fabbriche

Una certa generazione di sindacalisti ricorda bene le fabbriche degli anni '50, a cominciare dalla Fiat dell'ingegner Valletta, dove tenere in tasca l'"Unità" o l'"Avanti!" già era una buona premessa per il licenziamento.

Il 15 maggio 1970, come scrive il titolo del quotidiano socialista, "La Costituzione entra in fabbrica", si realizzano quei principi di libertà e dignità che attribuiscono al dipendente, sul luogo di lavoro, il ruolo di soggetto di diritti, non di oggetto (spesso in modo umiliante) delle decisioni altrui. E' approvato lo Statuto del lavoratori, che porta formalmente la firma di un ministro democristiano del Lavoro, ma che costituisce il coronamento dello sforzo estremo di un ministro socialista, Giacomo Brodolini.

Proprio questo dirigente socialista infatti, che ha introdotto una svolta profonda nelle politiche del lavoro, dopo aver riformato il sistema delle pensioni, con la collaborazione di uno staff di esperti guidato da Gino Giugni, ha fatto della liberalizzazione e modernizzazione delle relazioni industriali il suo obiettivo. Lo ha perseguito in lotta contro il tempo sapendo di essere minato da un male incurabile, e ha consegnato la nuova legislazione, ormai definitiva in ogni aspetto, al suo successore.

Lo Statuto dei lavoratori, che pone le norme italiane all'avanguardia, era già stato delineato nel 1952 da un grande sindacalista comunista, di sentimenti autonomi e riformisti: il segretario della Cgil, Giuseppe Di Vittorio. Ma la proposta può essere ripresentata con probabilità di successo nel clima di apertura verso i problemi sociali creato dal centro sinistra e dalla crescita del movimento sindacale.

La battaglia è tuttavia dura, perché, come spesso avviene, bisogna superare, da una parte le comprensibili resistenze di una destra da "padrone delle ferriere", dall'altra il massimalismo dell'opposizione comunista, che è sempre pronto a chiedere qualcosa in più di quanto sia possibile realisticamente ottenere, e che infatti non vota a favore del nuovo Statuto.

Oggi, le relazioni industriali, come sperava Giacomo Brodolini, hanno un assetto libero e razionale quale negli anni '50 e '60 non era neppure immaginabile. Ma, soprattutto negli anni '70, non sono mancati poi gli eccessi in senso opposto a quelli, precedenti, dell'arbitrio padronale. Erano gli anni del tentativo comunista di occupare ideologicamente le professioni e la società civile. Gli anni di "Magistratura Democratica", "Medicina Democratica", "Psichiatria Democratica", "Genitori Democratici". Sigle nelle quali "democratico", come nei regimi dell'Est, significa comunista. Magistrati politicizzati si sono perciò concentrati nelle Preture del lavoro e hanno teorizzato la cosiddetta "interpretazione evolutiva" del diritto. Una interpretazione cioè non fedele della legge, ma finalizzata alla evoluzione verso obiettivi salvifici della società, rivolta a tutelare, nel "conflitto di classe", gli interessi degli oppressi contro quelli degli oppressori. Se una simile interpretazione del diritto - si teorizzava - avesse scassato le imprese determinandone la ingovernabilità, tanto meglio: si sarebbero in tal modo fatte esplodere le contraddizioni del "sistema capitalista". Così sono nate le riassunzioni imposte dai giudici di estremisti, e persino di brigatisti, in fabbrica. Così si è favorito il clima di intimidazione in tante grandi aziende di Milano, Torino e Genova. Ma questa e storia degli anni di piombo. Né si può attribuire a un difetto originario dello Statuto dei lavoratori l'applicazione forzata che ne è stata fatta. Oggi, si può affermare che l'antica aspirazione del movimento socialista e sindacale a una libertà sostanziale sui luoghi di lavoro è realtà consolidata, e accettata dalle parti; che dopo gli estremismi è prevalsa una giurisprudenza equilibrata.