Più garanzie e libertà

All'indomani del primo governo di centro sinistra, il 6 dicembre 1963, il direttore Franco Gerardi titola a tutta pagina 1"Avanti!": "Da oggi ognuno è più libero". Poteva allora apparire una ingenua esagerazione propagandistica. Eppure oggi chi ne ha l'età può valutare quanto in effetti siano cresciute le libertà e le garanzie collettive individuali, nelle leggi come nel costume. Tutte le battaglie libertarie e garantiste, rese possibili dal nuovo clima politico, vedono i socialisti in prima fila.

Lentamente sono smantellate le bardature autoritarie del vecchio stato monarchico e fascista. Si procede finalmente alla piena attuazione della Costituzione e il più importante tra gli istituti portati dalla carta alla realtà pratica è certamente il referendum popolare.

Con esso l'Italia vera manifesta un volto ancora più moderno e avanzato di quella rappresentata in Parlamento, dicendo sì, con larghe maggioranze, al divorzio, all'aborto, alla responsabilità civile dei giudici, a risorse energetiche esenti dal rischio nucleare. Lo svuotamento del referendum attraverso un uso banalizzante e distorto costituisce oggi un pericolo. Ma le lotte referendarie sulla giustizia e sul nucleare la dicono lunga sulla resistenza, in Italia, di mentalità conservatrici ed elitarie. Ancora nel 1987, una coalizione di direttori di giornali, magistrati, professori universitari, scienziati nuclearisti, in modo neppure troppo dissimulato, avanza l'argomento che questi due referendum siano intollerabili, perché portano al voto su problemi troppo tecnicamente e giuridicamente complessi per essere valutabili da semplici e inesperti cittadini. Ai socialisti tocca contrapporre le stesse ragioni usate all'inizio del secolo verso coloro che, adducendo l'ignoranza delle masse, si opponevano al suffragio universale.

Se il sì nel referendum che stabilisce la responsabilità civile dei giudici costituisce una vittoria e se l'esperienza dimostra che le solite previsioni catastrofiste erano infondate, certo le condizioni della giustizia costituiscono tuttora la più bruciante sconfitta per il garantismo libertario. Scrive Leonardo Sciascia: "L'amministrazione della giustizia è pessima. E la colpa è di un ordinamento che ha dato ai giudici tanto potere e nessuna responsabilità. Poi la colpa è della lottizzazione politica, che c'è stata anche nel campo dell'amministrazione della giustizia e della magistratura. Questo stato di cose segna la morte del diritto in Italia". In effetti, nella magistratura degli anni '50 e '60, organica al potere democristiano e conservatore, si è prodotta col tempo una mutazione genetica per l'opera di penetrazione condotta dai comunisti negli anni '70 e '80. Si è aperta così la stagione di giudici prima protagonisti di inchieste tanto politicamente clamorose quanto inconcludenti e poi candidati del Pci alle elezioni. Dei sostituti procuratori tesi più a "difendere cause che a giudicare cause".

Oggi la magistratura dove, accanto a tanti ottimi giudici, pesa questo impasto di corporativismo e autoritarismo di origine conservatrice e comunista, ha in pratica un controllo quasi esclusivo della politica di repressione criminale, ma la sua organizzazione costituisce un caso unico al mondo. Il numero dei magistrati non può essere sollecitamente aumentato. Non possono essere spostati dove la lotta al crimine lo richieda. Non rispondono gerarchicamente neppure ai superiori. Avanzano nella carriera automaticamente, per anzianità, ma senza che al grado corrisponda la funzione: come in un esercito dove chi ha il grado di generale pretenda di fare il sergente. L'inefficienza della giustizia si legge in poche, semplici cifre. Mentre in Paesi simili al nostro, come la Gran Bretagna o la Francia, i carcerati sono 70.000, in Italia sono 30.000: altri 30.000, tanti quanti sono in carcere, si trovano in libertà non per una scelta ragionata, per un eccesso di tolleranza o di comprensione, ma semplicemente per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, perché il processo non è stato fatto in tempi ragionevoli