Un ecologismo pragmatico

Negli anni '70 e '80, partendo dalla Germania, crescono i partiti "verdi".. ma le idee "verdi", ancor prima, sono cresciute nel movimento socialista. E' vicina alla sinistra socialista l'associazione "Italia nostra", iniziatrice delle lotte per la tutela della natura. Lo è il club di Roma, presieduto da Aurelio Peccei che, dimostrando i pericoli derivanti dalla limitatezza delle materie prime, pone le basi per una politica di risparmio e di difesa delle risorse non in grado di autoriprodursi. E' un dirigente socialista belga il capo dell'esecutivo Cee che imposta il piano Mansholt, rivolto a incentivare o disincentivare le strategie industriali secondo che rispondano o no a esigenze oggi definibili "ecologiche".

Il movimento socialista condivide la parte razionale, non demagogica né velleitaria, delle politiche ambientalistiche. E soprattutto contribuisce a tutte le realizzazioni concrete intervenute nel nostro Paese. A Milano, un assessore socialista, per la prima volta in Italia., sostituisce il gasolio alla nafta nel riscaldamento domestico, riducendo, all'inizio degli anni '60, un inquinamento immensamente superiore a quanto oggi farebbe gridare allo scandalo.

Ancora a Milano, si crea il primo impianto di rilevamento dell'inquinamento e, nel 1983, per la prima volta, si chiude un centro urbano al traffico. Nello stesso anno, il Governo presieduto da Craxi crea, insediandosi, il ministero dell'Ecologia, sottolineando anche con questo atto formale il valore prioritario attribuito dal suo programma al problema.

Nel 1987, un ministro socialista, Giorgio Ruffolo, per la prima volta guida un ministero per l'ambiente con proprie competenze di spesa e con un programma di grandi investimenti che darà luogo al piano triennale 1989-'91, al progetto per il risanamento del Po, della Val Bormida e ad altre importanti iniziative.

Insieme a radicali e verdi, il partito socialista, contribuendo, nella sinistra, a rimuovere l'iniziale tiepidezza del Pci, si impegna a fondo nella battaglia storicamente decisiva per il movimento ecologista: il referendum che, l'8 novembre 1987, con l'80,6 per cento dei voti espressi, stabilisce lo stop alle centrali nucleari in Italia.

Non si tratta, per i socialisti, di una campagna referendaria ideologica e pregiudiziale, ma di un no al tipo di tecnologia nucleare disponibile all'epoca, che non esclude un futuro sì a tecnologie cosiddette "intrinsecamente sicure" e quindi non aperte a rischi tipo Chernobyl. Ed è, giudicandola a posteriori, una scelta giusta.

Oggi i socialisti si preparano a nuove campagne. Innanzitutto la sensibilizzazione dell'opinione pubblica su un paradosso evidente: che un Paese tecnologicamente avanzato, carico di beni superflui, in grado di estrarre e trasportare petrolio in tutto il mondo, sui monti e sotto gli oceani, non sia in grado di estrarre e distribuire acqua in quantità sufficiente.

Impegnati nelle realizzazioni concrete, i socialisti hanno portato avanti con equilibrio le idee "verdi", dicendo sì alle impostazioni pragmatiche e no a quelle ideologiche o pregiudiziali.

Sì, dunque, a uno sviluppo moderno, che tenga conto della qualità prima che della quantità, dal momento che è finito il timore atavico della penuria di beni materiali, ed è più concreta la preoccupazione per la carenza dei beni immateriali che rendono dolce la vita: dalla quiete alla natura incontaminata. Sì alla fiducia che la ricerca scientifica e la tecnologia possano essere indirizzate a risolvere i problemi dell'inquinamento.

Sì a una agricoltura sana, no alle mode elitarie e salutiste che dimenticano come, mentre nei salotti di Milano e di Roma si perseguono le diete naturali, un miliardo di persone rischia la morte per denutrizione. Sì alle scelte democratiche, no a quella che gli americani chiamano "sindrome NIMN" (Not In My Neigbhours: non vicino a casa mia): la sindrome egoistica cioè per cui le comunità locali oppongono un veto irrazionale a insediamenti indispensabili per il benessere collettivo, dalle centrali elettriche (di qualunque tipo), alle industrie di base. Sì alla priorità della salute sul profitto, no a decisioni che, se non prese simultaneamente da tutti i Paesi avanzati, cancellerebbero la concorrenzialità e metterebbero fuori dal mercato internazionale i Paesi con eccessivi vincoli ecologici. Sì, in un solo concetto, alle scelte ambientali realisticamente possibili, ma senza ingannare o diseducare l'opinione pubblica: chiarendo cioè che ogni vantaggio ecologico ha un prezzo. Tutto sta nello stabilire democraticamente dove la bilancia deve trovare il suo punto di equilibrio tra due valori spesso contrastanti: sviluppo economico da una parte; tutela dell'ambiente dall'altra