Date: 13/09/2006
Time: 12.02.21
Remote Name: 83.103.98.186
Remote User:
Il molo del socialismo nella società ingiusta ------------------------- FAUSTO BERTINOTTI ------------------ CARO direttore, ilfatto stesso che undibattito sul socialismo guadagni nell’Italia di questo tempo, su un grande quotidiano di opinione come La Repubblica, il rilievo di una questione politica cruciale può essere interpretato come segno di tempi. Potrebbe essere la spia di una ripresa di interesse pubblico perle questioni di cultura politica, se non la fine, almeno la crisi di un lungo ciclo, quasi un quarto di secolo, in cui lapolitica si è rinchiusa nella sferadella governabilità, sfuocatae subalterna versione di una “politique d’aborti” senza neppure l’ambizione dell’impatto forte sulla realtà del momento. (...) Ma c’è qualcosa di importante che così resta ancora fuori dal confronto? E si può dire che senza questo qualcosa il dibattito tra liberali e socialisti resta inadeguato? Credo di sì. In questo confronto, infatti, c’è un’omissione che balza agli occhi ed è quella che riguarda il modo di produzione, cioè l’interpretazione della società come sistema. Che razza di bestia è la sucietà in cui viviamo? Una chiave interpretativa si può costruire, indagando la natura e il peso che sono venute assumendo in essa le ingiustizie e le disuguaglianze. Esse sono divenute così profonde e strutturate non solo da produrre conflitti e rotture sociali radicali ma anche da far nascere, come è accaduto anche recentemente in Francia, nuove scuole sociologiche che, pur provenendo da culture liberali, fanno della ricerca sulle nuove ingiustizie sociali un terreno di fondazione di scuole di pensiero. Il punto dirimente sulla connessione tra le diseguaglianze ed il modello economico e di societàè il loro rapporto con lamodernizzazione e con l’innovazione. Si può constatare che in genere, anche in questo dibattito, tanto più una posizione siripropone come socialista tanto più è indotta a denunciare, a differenza di quella liberista, la crescente gravità delle disuguaglianze e la loro insostenibilità per il futuro della democrazia e della civiltà. SEGUE A PAGINA 19 CI CRIVEVA appunto Domi- precarietà: una replica tecnicoSnique Strauss-Kahn, nel organizzativa e sociale alla cresuo intervento su La Re- scente difficoltà delle imprese pubblica, che l’innovazione in di programmare e prevedere atto produce, oltre che delle op- uno stabile rapporto tra la proportunità, “anche” sconvol- duzione e il mercato. Ma si tratgenti ingiustizie sociali. Ma è ta di una risposta regressiva sul qui che il problema si fa aspro e terreno sociale (quello della de- duro. Se quell’anche fosse ri- finizione delle condizioni di lamovibile, se fosse cioè una su- voro e di cittadinanza sociale) e perfetazione, una patologia gravida di drammatiche conseche interviene e si aggiunge a guenze sull’intero assetto della un corpo che addirittura vi- società, sul suo grado di civiltà, vrebbe meglio qualora gli ve- sul senso del lavoro e della vita nisse asportata, le cose sareb- delle persone. Proprio questo bero alla portata dell’intervento riformista. Ma ben altro, in- spiega la rivolta generazionale vece, sarebbe il problema se contro questa condizione e l’innovazione che conosciamo, questa prospettiva. Eppure la se la modernizzazione in atto, precarietà sembra stare allavofossero invece proprio fondate rocontemporaneocomelaparsulla strutturazione e sull’uso cellizzazione sta al lavoro taylosistematico delle disuguaglian- rista. Come gli investimenti che ze, se cioè esse funzionassero cercano il “prato verde” (l’improprio in quanto produttrici di presa non-union) e come le disuguaglianze. Se utilizziamo produzioni che cercano la via di molte delle analisi critiche che fuga verso territori senza con- sono venute compiendosi sul- tratti di lavoro e al di fuori della l’economia della conoscenza legislazione sul lavoro, quel che nel capitalismo della globaliz- anche la precarietà cova è la sizazione, credo che dobbiamo stematica messa in discussione approdare a questa seconda te- della possibilità perle lavoratrisi. Con il capitalismo della gb- ci e per i lavoratori di costituirsi balizzazione e della conoscen- in coalizione del lavoro al fine di za si vuole definire una sua fase affermare collettivamente un specifica, quella in cui si produ- punto di vista autonomo e un ce una integrazione delle eco- potere di intervento sulle pronomie e una loro unificazione prie condizioni e sui propri de- in un mercato mondiale sotto il stini. Ritorna cioè una tentaziosegno di un predominio dei ne del capitalismo a ricondurre processidifinanziarizzazionee tutto dentro di sé, ritorna una con la messa in opera della co- suavocazionetotalizzante.L’enoscenza come fattore potente conomia della conoscenza codell’accumulazione. In esso il stituisce il tetto di questa colavoro organizzato nella pro- struzione, un tetto che è destiduzione materiale non solo nato a retroagire condizionannon diventa marginale ma viene sospinto dentro un nuovo e do, nel futuro che già si prepara, aspro conflitto di classe segna- l’intero edificio sociale. Andrè to dalla propensione, non ge- Gorz nel suo recente “L’immaneralizzabile ma molto forte, teriale” ci aiuta a capire di che si dell’impresaaridurboapurava- tratta. Il passaggio è indubbiariabile dipendente. L’insegui- mente rilevante: si delinea una mento nel mondo, con podero- nuova tappa nella storia del se allocazioni di investimenti in rapporto tra il lavoro, l’econonuove grandi aree di sviluppo a mia e la società. Quella conobassocostodellavoroeledelo- scenza che nella fase del maccalizzazioni industriali in aree chinismo si presentava separanon-union, inseguendo la for- ta dagli esecutori e incorporata za lavoro dove la si può trovare invece nelle macchine e nella al suo prezzo più basso, sono gerarchia, si presenta ora come tendenze assai indicative della un bene diffuso nella popolanatura del processo in atto che zione lavorativa e nella società. trova una drammatica confer- È ben vero che la conoscenza ma nelle inedite voragini di non è il saper fare, non è l’intel- sfruttamento che si aprono nei ligenza dell’esperienza e tutta- nostri stessi paesi, quando vie- viaessa attinge aquesti serbatoi ne meno l’argine della cittadi- e si rende molteplice, ambigua nanza. Gli immigrati clandesti- e sfuggente. Si viene configuni ridotti alla schiavitù nelle rando così una potenzialità li- raccolte del pomodoro nel Fog- beratoria del-dal lavoro e di giano, come ha rivelato l’in- erosione delle basi materiali e culturali della privatizzazione chiesta di un giornalista corag- della ricchezzaprodotta. Ilprogioso come Fabrizio Gatti, sono dotto del lavoro potrebbe prela prova vivente di quali spiriti sentarsi non più così separato animaleschi si possono spri- dai lavoratori, mentre la fonte gionare in questo processo. Bisogna sapere che, nel rapporto tra capitale e lavoro, nessuna conquista di civiltà è acquisita per sempre e che, al contrario, sempre e ovunque si possono spalancare gli inferni della prima industrializzazione. Del resto, non per caso, la cifra dellavoro in questo processo di modernizzazione è diventata la una specie di Kombinat politico-finanziario, un’oligarchia mondiale che governa pressoché l’intero movimento dei capitali, che ne sospinge la gran parte del risparmio raccolto sull’intera scala mondiale verso la potenza imperiale e in direzione di una sua allocazione tesa al profitto più alto e immediato e perciò indifferente alle conseguenze che determina nel rapporto tra povertà e ricchezza, sulla natura, sull’uomo, sulla civiltà. Esse dovrebbero essere ridotte a pure variabili dipendenti della competitività. Ma così matura una crisi di civiltà, così si costruisce la scena in cui prendono corpo guerra e terrorismo, mentre all’interno dell’economia della conoscenza il monopolio e le barriere all’accesso sono erette a difesa del privilegio, del potere e dunque al rafforzamento dell’ineguaglianze con tanta maggiore durezza quanto maggiore è l’insidia che il ricorso alla conoscenza, come fattore di produzione, porta all’accumulazione privata. Tanto meno diventa giustificabile la contraddizione tra la messa all’opera di una risorsa generale non riconducibile ad un valore di scambio e la natura privata del suo sfruttamento, tanto più essa deve essere riprodotta artificialmente, cioè attraverso la politica. Ma in un sistema che vive perdendo progressivamente ogni giustificazione, e quindi consenso attivo, c’è tutto il rischio del nostro tempo. Chi si richiama al socialismo farebbe bene oggi a ripartire dalla rilettura di “Sul concetto di storia” di Walter Benjamin. Capisco che ci sipossa interrogare sulla componente messianica di quella interpretazione della storia, ma non capisco come una cultura del cambiamento possa ignorare il rischio di catastrofe che si inscrive in una modernizzazione siffatta. Sembrano invece avvertirlo solo delle ricerche che si muovono dentro ispirazioni religiose che spesso, tuttavia, replicano al pericolo con una drammatica pulsione integrista e persino fondamentalista. Invece no, nel capitalismo della globalizzazione e della conoscenza c’è inscritto in primo luogo un “dipende”. Esso è aperto ad una corsa verso una sorta di pan-capitalismo ma anche, al contrario, verso una fuoriuscita da esso. Il “dipende” non è ascrivibile alla sola sfera del politico, ma si colloca in un determinato rapporto tra iprocessi economico- sociali, il formarsi in essi di soggetti protagonisti della storia futura e la costruzione di una volontà politica capace di cogliere la natura più profonda della contesa. La ricerca di quel determinato rapporto che dà luogo alla trasformazione è il compito oggi della grande politica. Se abdica a questo il socialismo sieclissa, matemo conesso anche la civiltà.
[Artchivio/_borders/disc2_aftr.htm]