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Intervista a Rino Formica / da Liberazione

Date: 10/05/2006
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Intervista a Rino Formica, parlamentare, ministro, dirigente del Partito socialista italiano. Una delle figure in grado di leggere la realtà e di interpretare la politica che si sta recitando in questi giorni nel “palazzo” «Il Paese ha i piedi nel nuovo ciclo ma la testa nel vecchio» Gemma Contin Rino Formica, classe 1927, parlamentare, ministro, dirigente del Partito socialista italiano. Rimane una delle figure in grado di leggere la realtà e di interpretare la politica che si sta recitando in questi giorni nel “palazzo” e fuori, dove si decide. Ma cosa? Lo abbiamo intervistato. Onorevole Formica, in Parlamento si vota “in bianco”. Ci spiega questo questo “gioco” astruso? Il voto in bianco in passato veniva utilizzato perché vi era una situazione di incertezza: sulla soluzione di ordine generale, sulla tenuta interna dei gruppi. In questo caso le due incertezze si sommano. In queste votazioni delicate è significativa anche la segnalazione minima: dieci voti indicano un nome “in grembo”; venti si astengono ma annullano della scheda, un segno di latente ribellione. Insomma, la scheda bianca è una “segnalazione”. E in questo caso? Credo che oggi sia un po’ diverso. In passato noi vivevamo in un regime di forte democrazia organizzata, in cui la scheda bianca segnalava anche che vi era una maturazione in corso nella formazione di un’opinione, di un orientamento. Un’indicazione che veniva accettata dai gruppi dirigenti che lavoravano intorno a una progettualità, e anche intorno a dei compromessi. Ma sempre dei compromessi che nascevano dall’incontro di forze reali, vive, non disgregate. Sotto certi aspetti anche la scheda bianca era un indicatore razionale di uno “stato dell’arte”. Adesso, invece? Adesso la scheda bianca può anche significare che lo “sfogo” elettorale segnala una situazione di insofferenza negli elettori, sia in platee grandi che in platee ristrette come in questo caso, perché lo scontro politico è stato soffocato nelle sedi tradizionali. Nessuno oggi, all’interno delle formazioni politiche, né nel centrosinistra né nel centrodestra, ha aperto un dibattito sulla soluzione non nominalistica ma “politica” da dare al problema, che se non è politico allora non interessa le istituzioni e non interessa il Paese, ma se è politico non può non avere dietro di sé che la costruzione democratica di un consenso. Qualche nome è stato fatto. Anche questo è un “espediente”, dove nessuno ha fatto il nome di un candidato che abbia dietro di sé l’assunzione di responsabilità ufficiale non dico di uno schieramento intero ma neppure di un intero partito. Perché, secondo lei? Perché ci troviamo di fronte a una situazione anomala: la destrutturazione del modello di democrazia organizzata che hanno i partiti. Una teoria della fine degli Anni Settanta con la cosiddetta “demolizione della partitocrazia”, un assalto che nasce in aree minoritarie, contestative, sia di destra che di sinistra, che ebbe le manifestazioni più vistose nel terrorismo, ma anche un terreno di coltura molto fertile sia a sinistra, con i radicali, sia a destra, con il leghismo. Un’ondata antipartitocratica che si portava dietro, come sempre avviene quando non vi è un progetto sostitutivo, i residui malati del populismo, del poujadismo, del corporativismo scatenato. Son passati quindici anni. In questi quindici anni è passata di fatto la dottrina antipartito, cioè quella della partitocrazia come “male”, ma è passata anche - come riflesso del crollo delle grandi ideologie del Novecento che si identificarono nel bene e nel male con la “politica” tout court - una miscela esplosiva identificata nella vulgata comune come “crisi della politica”. Arriviamo allo stallo istituzionale. L’effetto congiunto: annebbiamento della politica e crisi del partito politico, porta a una oggettiva impresentabilità delle decisioni dei partiti, da una parte e dall’altra. Insomma, se oggi tu guardi bene, il pudore dei partiti ad avanzare ufficialmente non solo una candidatura ma una proposta di sostegno, una proposta politica, una visione politica di soluzione dei problemi, è diventata paura. Come se ne viene fuori? Quello che non si è capito a sinistra è che anche eventi spettacolari come le cosiddette “primarie” sono una forma di evasione dal problema. Insomma, tendenze o sondaggistiche da una parte o “plebiscitarie” dall’altra sono roba da ridere. Prima, il “festival del tortellino” era un elemento di socializzazione seria. Ma è cambiato il mondo. Sì, e si sono costruiti modelli di costituzione materiale in cui la trasfusione avvenuta in questi quindici anni nel sistema delle regole non scritte ha fatto sì che siamo passati da una repubblica parlamentare a una repubblica presidenziale. Tutto è avvenuto nel corso di tre mandati presidenziali. Primo fu Pertini, nel tentativo di uscire dall’ombra del terrorismo: una risposta emotiva a un dramma reale; poi ci fu la lucidità di Cossiga, che pose problemi seri. Bisognerebbe riprendere alcuni suoi atti ufficiali sull’esaurirsi di un impianto costituzionale che apparteneva a una storia diversa: la Resistenza, la Liberazione, la caduta del fascismo. Quando si esaurisce quella matrice è necessaria una sua revisione. Non vuol dire che vanno distrutti i principi, ma che vanno vivificati e rianimati. Si disse allora “la Costituzione non si tocca”. Sì, ci fu in Parlamento l’invettiva di Scalfaro contro Cossiga. Lì comincia quella lunga storia di “cecità politica”. Lì si acceca il sistema politico italiano. Cossiga fece poi tre atti pubblici: il discorso del 31 dicembre ’91, la lettera del gennaio ’92 di abbandono della Democrazia cristiana, il discorso al Paese del 21 aprile ’92 in cui annunciava le dimissioni anticipate. Tre atti ufficiali che sono la radiografia disattesa della crisi strutturale democratica del Paese. E oggi? Il Paese ha i piedi nel nuovo ciclo ma la testa nel vecchio. Siamo di fatto in una repubblica presidenziale ma non avviene, come dovrebbe in una repubblica presidenziale, che candidature, programmi e schieramenti di forza siano alla luce del sole, con una ufficiale e legale partecipazione. Siamo invece all’intrigo. Dobbiamo tornare alla questione dal fondo. Perché se non andiamo alla “sorgente del male”, possiamo attenuare, contenere, rinviare o “dolcificare” una materia molto amara. L’origine è il problema non risolto della democrazia italiana, passata da un modello di democrazia organizzata a un modello di democrazia disorganizzata. La vera crisi è la crisi del partito politico che giunge nella sua fase terminale della malattia, di saturazione storica della sua funzione, non sostituito da un revisionismo della democrazia organizzata ma dalla sua perpetuazione “a consumo” e alla dissacrazione continua. Adesso bisogna votare per il Capo dello Stato. Sì, e a questo punto bisogna che ognuno riveda in casa sua. La politica si sta esaurendo e dà il peggio di sè stessa, non il meglio. Negli anni della transizione ci sono state due grandi illusioni: che tutto potesse avvenire senza traumi politici, mentre il medico studiava la malattia; e che la crisi di carisma istituzionale fosse sostituita dal carisma personale, che ha prodotto ectoplasmi nell’una e nell’altra parte: Berlusconi e Prodi sono la stessa cosa. Questa è una crisi di classi dirigenti, perché negli Anni Ottanta la generazione che doveva preparare nuovi uomini a migrare dalla tradizione al cambiamento, li cooptò invece secondo la tradizione e la fedeltà. Quindi abbiamo avuto il formarsi di burocrati minori o di trasformisti. Mediocri mezze maniche oppure intelligenti conduttori di transumanze. Oggi ci troviamo di fronte a debolezze strutturali della classe dirigente perché i migliori sono i campioni della transumanza, i peggiori sono mezze maniche. Lei cosa prevede? Vale per il centrosinistra, perché ha i numeri di maggioranza, ma sarebbe valso a parti invertite anche per il centrodestra. Il problema oggi qual è? il candidato “tradizione e cambiamento” non passa; il candidato “tradizione e fedeltà” è più rassicurante. Cosa vuol dire? vuol dire che c’è il peso dei quindici anni in cui non si è risolto il problema che ipotecherà altri quindici anni.

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