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Quel Comunista Socialdemocratico / da Il Corriere della Sera

Date: 11/05/2006
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Quel Comunista Socialdemocratico Socialdemocratico? Certo, e da un pezzo, e seppur con tutte le sue proverbiali prudenze sempre più apertamente, fin dai tempi in cui il Pci intratteneva (in primo luogo grazie a lui) una fitta rete di relazioni con tutte o quasi le socialdemocrazie, ma in Italia a un approdo socialdemocratico fieramente si negava. E però se qualcosa Giorgio Napolitano proprio non sopporta sono le ricostruzioni di comodo, spesso caricaturali, e grottesche, della storia del Pci. Del partito in cui entrò, poco più che ragazzo, già da dirigente, visto che quando gli fu chiesto di prendere la guida della gioventù comunista napoletana, nel ’45, la tessera non ce l’aveva, per via soprattutto dei «dubbi di carattere essenzialmente ideologico» che si portava appresso. Per quella storia e per quel partito (per quasi cinquant’anni la sua storia, e il suo partito) che già nella Napoli del dopoguerra «non si formalizzava», e con tutto il suo stalinismo sapeva spalancare le porte ai «giovani intellettuali dotati provenienti da famiglie borghesi», Napolitano ha e pretende anzitutto rispetto, un rispetto che è tutt’altra cosa dalla liquidazione sommaria, certo, ma pure dalla rimozione. Scriveva quasi un quindicennio fa: «Chi è stato comunista, anche nel modo più indipendente, è partecipe della sconfitta. Può averla subìta come conferma della propria critica a modelli e comportamenti aberranti, della validità delle proprie convinzioni democratiche e socialiste. Può non sentirsene travolto. Ma non vi si può sentire estraneo. Nella coscienza di chi sia rimasto comunista fino all’89, o al ’91, anche se comunista di una particolarissima specie come in Italia, si è spezzato qualcosa che non si è riusciti a superare e trasformare». Superare, trasformare. Napolitano il socialdemocratico non ha mai detto (o lasciato intendere): rinnegare, abiurare. Non lo disse ai tempi della svolta di Achille Occhetto, che appoggiò, certo, ma gli parve improvvisata e incerta nelle motivazioni e più ancora nei fini, e soprattutto affidata a un gruppo di (allora) quarantenni che del berlinguerismo erano stati un po’ la giovane guardia, e quanto ad antisocialismo avevano dato (quasi tutti) dei punti persino a Enrico Berlinguer. E non l’ha detto nemmeno in tempi assai più recenti, tanto meno nell’autobiografia politica ( Dal Pci al socialismo europeo ) pubblicata l’anno scorso da Laterza, in cui Napolitano ricostruisce, maneggiando con la proverbiale cautela ma senza reticenze quel materiale incandescente che è la memoria storica, la sua lunga vicenda nella sinistra italiana. La tesi di fondo è nota: il Pci avrebbe potuto e dovuto salvare naturalmente non tutto il suo passato, ma il meglio della sua semina, per ricondurlo nell’alveo del socialismo democratico, in Europa, certo, ma anche in Italia; e invece si attestò, negli ultimi anni di Berlinguer e oltre, a difesa di una sua supposta diversità politica e morale (quasi fosse una sorta di riserva di massa della democrazia repubblicana in anni di declino), e nello stesso tempo, sempre per non finire socialdemocratico, si mise in cerca di inesistenti terze vie, così esponendosi all’isolamento e, nello stesso tempo, a una deriva radicale e settaria. Vero. Ma chi non si riconosceva in questa strategia, o in questa assenza di strategia, e quindi in primo luogo lui, Napolitano, che, in un partito ufficialmente senza correnti, della destra migliorista prima, dichiaratamente riformista poi, era il leader o quanto meno il punto di riferimento principale, diede battaglia per quanto avrebbe dovuto, o si limitò a duellare di fioretto quando sarebbe stata d’obbligo la sciabola? A questa domanda antica e ricorrente, talvolta astiosa, quasi sempre polemica, anche perché contiene un giudizio (o un pregiudizio) radicato su un presunto eccesso di diplomatismo e su una scarsa disposizione alla sfida in campo aperto, si può rispondere in molti modi. Magari con altre domande. Per esempio chiedendosi se e quanto una simile evoluzione sarebbe stata effettivamente possibile in un partito che, come dice Napolitano nella sua autobiografia, aveva fatto i conti con il Sessantotto restando «impastoiato nella falsa coscienza di sé come forza rivoluzionaria», e aveva preso sì una più netta distanza dall’Unione Sovietica, ma rimanendo «dentro l’universo storico e ideologico nel quale era nato al pari di tutti gli altri partiti comunisti». O raccontando puntigliosamente, come fa sempre Napolitano, e come confermano sul versante opposto gli appunti riservati di Tonino Tatò per Berlinguer, gli scontri di quegli anni nel gruppo dirigente comunista, e il clima tesissimo, molto più teso di quanto si potesse percepire da fuori, in cui si svolgevano. Certo è che Napolitano non fu d’accordo né sulla ricerca di improbabili «terze vie» tra comunismo e socialdemocrazia né sulla guerra civile a sinistra esplosa, con Bettino Craxi presidente del Consiglio, sulla scala mobile; e il prezzo pesante di un dissenso sempre più evidente lo pagarono, lui e tutti i miglioristi, tacciati di essere una sorta di quinta colonna craxiana, ridotti al rango di ospiti non troppo desiderati in quella che continuavano a considerare, comprensibilmente, casa loro, anche negli anni successivi. Fino alla svolta di Occhetto. E persino oltre, perché gli eredi di Berlinguer continuarono a pensare, e pure a teorizzare, la necessità di «andare oltre» non solo il comunismo appena seppellito, ma anche una socialdemocrazia che insistevano a disprezzare in cuor loro, di sicuro non solo per via di Craxi e del craxismo. Più tardi, molto più tardi, soprattutto da parte di Piero Fassino, è arrivato il riconoscimento aperto dei meriti di Napolitano, primo tra tutti quello di essersi inoltrato con prudenza, sì, ma soprattutto con coraggio, in tempi nei quali per farlo si pagava dazio, sul terreno giusto. Napolitano, naturalmente, ne è stato lieto. Ma certo si è chiesto anche se e quanto lo abbiano seguito e intendano seguirlo davvero, su questo terreno, i suoi compagni, e più in generale la sinistra. Il Pci, il partito che voleva «trasformare», e «superare», e del quale gli capita talvolta, specie alle viste delle mestizie del presente, di rimpiangere alcune virtù, non c’è più da un pezzo. La ricomposizione in un unico, grande partito delle diverse famiglie del socialismo italiano non c’è stata, e probabilmente non ci sarà mai. Della prospettiva di un novello partito democratico si parla a giorni alterni: e in ogni caso non lo ha mai entusiasmato più di tanto. Forse nell’affetto con cui viene salutata non solo a sinistra la sua elezione (a proposito: auguri di cuore, presidente) c’è anche una punta di rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e non è stato.

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