Date: 29/08/2005
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TESI CONGRESSUALI UNITA’ E RINNOVAMENTO DEI SOCIALISTI ITALIANI Un nuovo socialismo per una nuova Europa Premessa Il Nuovo Psi nasce per difendere l’identità autentica del socialismo autonomista italiano, per contrastare la manipolazione politica dell’inizio degli anni ‘90 culminata con l’era del giustizialismo e dell’incerto ‘bipolarismo all’italiana’, per garantire continuità alla migliore tradizione ed esperienza del socialismo riformista nel campo amministrativo, sociale, culturale e sindacale. Il partito ha ricostruito attorno a sé una sincera, appassionata e motivata difesa di pochi ma concreti principi ispiratori ideali, collocandosi nella dimensione transitoria della politica italiana a fianco di coloro che, su un piano politico maggioritario nel Paese hanno cercato di contrastare la sistematica e definitiva cancellazione della democrazia dei partiti tradizionali che, all’inizio degli anni ‘90, aveva trovato nella Democrazia Cristiana, nel Partito Socialista Italiano e nei partiti laici i bersagli principali, unici colpevoli di una vasta e diffusa degenerazione che aveva corroso e minato le fondamenta della democrazia italiana ed alimentato un drammatico deficit di consenso e di legittimazione popolare. I recenti congressi del Nuovo Psi hanno progressivamente sviluppato analisi coerenti circa l’andamento e lo stato della politica democratica nel nostro Paese, confermando il carattere transitorio della propria collocazione politica, rilanciando il tema dell’unità delle organizzazioni socialiste, riqualificando sul piano tematico i propri orizzonti programmatici su una linea coerente ad un idea di socialismo liberale adattata e aggiornata ai nostri tempi. Vi è una necessaria linea di continuità e di progresso nelle analisi d’origine dalla fondazione del partito sino ad oggi, sulla maturazione di un ineludibile rapporto con il resto della diaspora organizzata del socialismo italiano, su un necessario ed ampio confronto con la sinistra Italiana. L’esperienza nella Casa della Libertà Il Nuovo Psi ha svolto, in questi ultimi anni, un ruolo essenziale tornando a pieno titolo nelle istituzioni politiche del nostro Paese nei diversi livelli di rappresentanza. All’origine della sua formazione, la coalizione denominata Casa delle Libertà si presentava come un ampio e largo arco di forze democratiche, unite da uno spirito programmatico e sollecitate a raggiungere un concreto obiettivo di rinnovamento e di riforme per il Paese. Prescindendo dalle vistose differenze ideologiche dei partiti che vi appartengono, collegati e unificati dalla forza carismatica del premier, la Casa delle Libertà ha raggiunto sul piano elettorale importanti consensi che, per la natura eterogenea dei suoi appartenenti, non ha saputo, non è riuscita o non ha potuto tradurre in convincenti realizzazioni di carattere politico, rendendo marginali e superflui i contributi delle aree politiche minoritarie come la nostra tenute, progressivamente, in uno stato di marginalità ed esclusione. Le conseguenti sconfitte elettorali hanno poi prodotto, inevitabilmente, l’esigenza di una ristrutturazione, di una revisione, di un cambiamento nel campo del centrodestra italiano, con l’obiettivo ed il fine di costruire, entro il perimetro della vecchia Casa delle Libertà, un contenitore dei moderati che si collega con la famiglia del popolarismo europeo. Questa prospettiva, che accentua l’inclinazione bipartitica del ‘partito-guida’ della coalizione e che mortifica ed annulla l’autonomia e le identità politiche e culturali delle singole forze, non può essere quella del Nuovo Psi. Conclusioni Il Partito ha ribadito nell’ultima Assemblea Nazionale il proprio rifiuto di aggregazione al Partito unico dei moderati e affermato la presa d’atto “dell’esaurimento dell’alleanza del Nuovo Psi con la CdL comunque sia” affermando perentoriamente la propria incompatibilità con questo quadro di alleanza. La scomposizione dei poli, la questione socialista. Il dibattito che si è aperto nel centrodestra dopo le elezioni ha dimostrato, con evidenza, il punto di crisi del sistema bipolare all’italiana, che produce effetti che disarticolano entrambi i territori della politica nazionale. Mentre nella destra il richiamo all’unità del moderatismo, fondato su principi e valori, enfatizzati dalla stessa vittoria degli astensionisti referendari, punta alla riorganizzazione in un terreno politico che confina e coincide con la grande famiglia del popolarismo europeo, a sinistra, la scelta della Margherita di separare il proprio destino elettorale dall’indefinita convergenza unitaria dell’Ulivo rimandando ad occasioni successive le prospettive di un’eventuale convergenza in un unico soggetto della sinistra italiana di correnti, tradizioni , esperienze politiche differenti, ha aperto un nuovo e importante spazio politico. Questa restituzione di ruolo e di spazio alle identità politiche, sanzionate ed escluse dalla politica degli anni ’90, rilancia e rinnova l’esigenza di promuovere la questione socialista non più come mera e riduttiva esperienza di testimonianza residuale, bensì come destinataria di una funzione e di un ruolo politico essenziale al fine di determinare nuove articolazioni nel cuore della politica nazionale. Essa si rende tanto più necessaria anche per il colpevole ritardo con cui coloro che frettolosamente si erano dichiarati eredi di quella tradizione, nel corso degli anni ’90 - i Democratici di sinistra - hanno allontanato dall’agenda della politica l’appuntamento con il confronto e la capacità di analizzare e rivisitare, con coraggio e verità, la robusta e concreta esperienza revisionistica del socialismo italiano degli anni ‘80, il suo moderno e lungimirante approccio programmatico, la sua determinante e decisiva impostazione ideologica che seppe riassumere nel riformismo socialista le spinte più modernizzatrici del Paese che alla fine degli anni settanta era condotto al collasso politico frutto del deficit democratico ed economico. Noi non sottovalutiamo che le timidezze del confronto storico sono apparse, sul piano dell’onestà politica, un passo in avanti rispetti agli assordanti e colpevoli silenzi sulla disintegrazione politica dei socialisti Italiani e sulle loro tragedie politiche. Noi non intendiamo assegnare soltanto alla storia il compito di indagare e setacciare sulla scomparsa del Psi, esso resta un terreno aperto di confronto e di doverosa analisi dalla quale dev’essere tenuta lontano ogni strumentalizzazione di parte ogni ricostruzione politica faziosa od interessata. La politica del Psi e di Bettino Craxi rivive nella nostra battaglia quotidiana, negli indirizzi e negli insegnamenti di fondo dello statista scomparso la cui memoria ed il ricordo, anche grazie all’azione del Nuovo Psi, sono cresciuti fra i socialisti e fra gli italiani. Il confronto a sinistra Il confronto da avviare nei confronti della sinistra del nostro Paese non può prescindere dalle ragioni politiche che hanno tenuto consapevolmente e legittimamente il Nuovo Psi lontano da quell’opzione. Il rifiuto della logica bipolare, della progressiva logica annessionistica che ha caratterizzato l’Ulivo degli anni ‘90, la spinta maggioritaria unita alle tentazioni speculari di ‘leaderismo senza contrasti’, sono i mali che hanno caratterizzato la coalizione di centrosinistra. E la stessa difficoltà che ha incontrato la coalizione di maggioranza nel contenere le spinte più radicali provenienti dai settori più estremi dell’autonomismo padano rischia di riprodurre, se non si fonda su una solida e concreta base programmatica, nella stessa coalizione di centrosinistra, che ha ospitato per un lungo periodo, senza contrastarle, le spinte più radicali di una sinistra tardo-massimalista, di un movimentismo fine a se stesso che ha trovato nella contestazione al globalismo e nel pacifismo a senso unico le proprie ragioni di esistenza, unite ad un radicalismo elitario conseguenza ed eredità della lunga parentesi giustizialista fusa ad un generico rifiuto della democrazia fondata sull’esperienza dei partiti che sono, al contrario, la nuova e concreta esigenza politica e storica di questa fase nel nostro Paese. L’unità e l’autonomia dei socialisti nel centro-sinistra italiano Fondere le esperienze socialiste per un ampio progetto e prospettiva di una nuova formazione, che ha nel socialismo liberale e riformista il proprio orizzonte ideale e programmatico, non è un generico progetto di unità delle organizzazioni socialiste. Essa non può che riferirsi ad un orizzonte politico più vasto e s’inserisce, in questa determinata fase storica, nella necessità di dare una risposta politica socialista alla crisi italiana, inserita nella più ampia crisi politica dell’Unione europea. E’ essenziale riconoscere che, nella lunga fase di transizione politica che il nostro Paese sta attraversando (l’esplosione dei partiti è stata la conseguenza più drammatica) soltanto la risorgenza di una nuova dialettica politica fondata sui partiti potrà evitare conseguenze ben più drammatiche nel futuro. Se l’auspicio di una riforma delle regole elettorali che garantiscano maggior pluralismo ed equilibrio nel perseguire gli obiettivi di governabilità (una rappresentanza proporzionale alle forze democratiche, un equilibrio politico omogeneo nella formazione dei governi e delle alternanze) resta obiettivo, di merito e di fondo, della nostra azione, egualmente, la scommessa di una nuova e più feconda unità politica dei socialisti deve fare leva sulla consapevolezza che, alla nostra parte politica e alla nostra cultura democratica, è richiesto, come già avvenuto nella storia italiana, non il sacrificio dell’unità, ma il bisogno di manifestare, attraverso il ritrovato orgoglio della nostra identità, la vitalità democratica e la nostra capacità di determinare condizioni di ricambio nella vita del Paese, irrompendo con nuova e ritrovata forza nello scenario politico italiano. Le formazioni politiche che oggi sono presenti nelle istituzioni italiane, seppur collocate su fronti opposti, hanno entrambe saputo perpetuare, con dignità e coraggio, una difesa della propria identità. Sono perciò maturate, nel tempo, le condizioni per ridurre la distanza, non in ragione di un ravvedimento di chi si è collocato in una posizione politica considerata ‘eretica’, ma costruendo, con più forza e determinazione, una prospettiva politica nella sinistra italiana che possa poggiare su un riferimento politico e culturale certo, su un riformismo non di facciata né di convenienza, su una concreta e reale nuova consapevolezza dell’originalità e della modernità del nostro pensiero politico. In questo senso, la scelta di civiltà che fu compiuta da Sdi e Nuovo Psi, che affrontarono e interpretarono in modo diverso ed opposto una fase drammatica del nostro Paese e della storia socialista, racchiudono in una nuova sintesi politica ed in una nuova scelta di civiltà le ragioni del loro stare assieme. Esse possono determinare una convivenza naturale, promuovendo una convergenza elettorale che sia premessa alla costruzione di un soggetto politico socialista riformista, gettando in tal modo nuove basi per un ampio rinnovamento della sinistra italiana nell’attuale schema bipolare, attualmente relegato in un vasto arcipelago di centrosinistra il cui superamento ed adeguamento in chiave riformista è auspicabile. La crisi del centrodestra, la crisi del Paese La crisi latente della maggioranza di governo, sanzionata con un voto largamente negativo ottenuto alle recenti elezioni regionali e culminato con la crisi politica che ha portato alla formazione di un Berlusconi bis, ci conduce ad una revisione delle tesi che avevano orientato le nostre ultime assise congressuali e che avevano trovato un’ulteriore spinta nel corso del nostro ultimo Congresso. Mentre sollecitavamo la necessità di cogliere gli elementi essenziali dei profondi mutamenti geo-politici, geo-strategici e geo-economici del nostro Paese, la compagine governativa ha progressivamente sottovalutato gli impatti della accentuata competitività del sistema globale, ponendoci di fronte ai drammatici ritardi che il nostro ‘sistema-Italia’ ha accumulato durante gli anni della cosiddetta seconda Repubblica. Non tutto il saldo negativo della situazione economica può essere scaricato sull’azione governativa. Tuttavia, la scelta di trasferire in sede europea, in particolare sull’adozione della moneta unica, tutto il bilancio negativo di questi anni, riduce a mera condizione congiunturale una crisi che è assai più profonda e che per un lungo periodo, con colpevole ritardo, è stata sottaciuta finendo col pesare largamente sulle condizioni di vita generale del Paese, dei nostri cittadini, sulla qualità e la salute del nostro sistema produttivo, ripiegato su sé stesso ed incapace di far fronte ad una spirale che si preannuncia assai negativa. Dobbiamo prendere atto che non è stato e non sarà possibile influire sui connotati essenziali di questa alleanza sui terreni che sono propri di una forza riformista. Le istanze dei socialisti sono rimaste letteralmente ignorate, a partire dal documento ‘De Michelis – Necci’ del febbraio del 2004. Ad un deficit di riformismo economico associamo anche un vistoso deficit di politiche sociali ed istituzionali, il cui timbro appare assai più prossimo alle tendenze neo-conservatrici che si preannunciano largamente maggioritarie nel nostro continente. Una deriva neo-conservatrice che ha trovato una vittoria clamorosa nell’annullamento, attraverso il larghissimo astensionismo, del referendum sulla fecondazione medicalmente assistita. Nonostante esso sia stata la conferma dell’obsolescenza dell’istituto referendario, vi è stato un forte impegno delle istituzioni religiose che, invadendo il terreno proprio delle istituzioni civili, hanno segnato, dopo le conquiste sociali in materia di diritti degli anni ‘70, una brusca battuta d’arresto del carattere di modernità e di libertà civile del nostro Paese. Ciò attraverso un esplicito sostegno di ampi settori della maggioranza laica e cattolica del nostro sistema politico, resosi ormai subalterno alle spinte più integraliste del mondo cattolico e delle istituzioni ecclesiastiche, che spingono verso una profonda revisione dell’impianto liberale e laico del nostro ordinamento, mirando a svolgere un ruolo più ampio di vera e propria supplenza politica in materia di diritti civili e contendendo ad una ripiegata e vetusta cultura laica un ruolo di supremazia valoriale e civile. Nuovo socialismo nuova Europa Vi è dunque la necessità di garantire alla sinistra Italiana una robusta iniezione di socialismo riformista, l’esigenza di costruire, in chiave italiana, un’opzione che sappia coniugare giustizia sociale e modernità, una politica che sappia contrastare le insorgenti spinte terroristiche e che promuova la solidarietà internazionale, nella strenua difesa dei diritti civili e delle libertà in una chiave moderna e pluralista senza rimuovere il principio delle libertà religiose in uno Stato laico, un moderno riformismo, sul piano istituzionale, senza fratture dell’impianto costituzionale e vieppiù dell’unità e della sovranità della nazione. Questi sono i compiti e gli obiettivi di fondo di una nuova forza socialista, che intende costruire una formazione responsabile del futuro dell’Italia in una nuova Europa, dove non prevalgano i semplici interessi di ogni singola realtà statuale, ma si enfatizzino, in modo adeguato e non burocratico, i principi di solidarietà e reciprocità che sono alla base di un’Unione europea perseguita con sacrificio e con determinazione politica negli anni in cui i socialisti italiani furono protagonisti della stagione del primo allargamento e del primo significativo trattato vincolante nel 1991. Le esperienze del socialismo democratico in Europa non hanno conosciuto il drammatico epilogo del Psi. Tuttavia, sono state, ciascuna nelle proprie singole realtà, alle prese con forti crisi di identità e di prospettiva, di rinnovamento ideale e di aggiornamento teorico. Ciascuna delle singole esperienze rappresenta, in parte, un riferimento utile per una risorgente formazione socialista. Il determinato e pragmatico approccio alla modernizzazione, una più larga ed estesa responsabilità nell’utilizzo delle pubbliche risorse, unita alla difesa dei diritti fondamentali acquisiti attraverso le conquiste della socialdemocrazia classica, è uno dei fondamenti della esperienza del neolaburismo inglese che ci sentiamo di condividere. L’approccio non burocratico né statalista delle socialdemocrazie mediterranee, coniugata ad una forte sensibilità nella moderna promozione di diritti civili e delle categorie più deboli, assieme al superamento delle incrostazioni ideologiche del socialismo dirigista sviluppato dalla maggioranza del partito socialdemocratico tedesco, riqualificano e rendono, nella grande e diffusa crisi dei partiti di massa in Europa, vitale e suggestiva l’azione dei partiti che fanno riferimento alla famiglia del socialismo europeo, cui le esperienze italiane non possono, ancora per un prolungato periodo, offrire solo lo spettro delle loro antiche divisioni. Il contesto europeo ed internazionale L'offensiva terroristica di matrice islamica, l'instabilità politica mediorientale, la difficile transizione irachena e il fragile processo di pace fra Israele e Palestina colgono l'Europa nella fase più acuta della sua paralisi e della sua integrazione. Più negativo è il momento economico, più debole é la sua capacità di sviluppare con forza una propria risoluta iniziativa politica sui diversi fronti che si sono aperti, estendendo il pericolo di stabilizzazione di una guerra non convenzionale fra l'occidente e il mondo islamico. Ugualmente, la consapevolezza che ci troviamo di fronte alla fase più drammatica e gravida di incognite che l'umanità aveva conosciuto dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi non ha ancora prodotto gli antidoti di carattere politico per contrastare e contenere i rischi di un più vasto allargamento dei conflitti in corso, che potrebbero determinare conseguenze assai devastanti per le future generazioni. L'attacco portato al cuore delle grandi capitali dell'occidente, al di là dell'Atlantico e nel cuore dell'Europa anglosassone e latina, segnalano la necessità e l'obbligo di una più vasta responsabilità di carattere politico che coinvolga non soltanto le istituzioni democratiche ma, più in generale, investa la politica di un ruolo nuovamente centrale nella sua capacità di elaborazione culturale, di offrire risposte di lungo periodo innanzi a questioni che investono non solo i nostri ‘stili di vita’ ma i nostri stessi sistemi democratici, alle prese con una sfida non immaginata né immaginabile prima d'ora. Il carattere politico di questa responsabilità europea ci investe anche di nuovi compiti e doveri verso l'alleato atlantico. Si tratta non soltanto di sviluppare con l'amministrazione americana un atteggiamento sostanzialmente passivo, ma di contribuire, al contrario, a determinare una necessaria azione politica di cosiddetto ‘soft power’ evitando di ridurre i conflitti in atto ad una mera (quantunque doverosa) azione di contrasto militare o di offensiva fondata sulla sicurezza e sull'intelligence, cosa questa che resta in cima alle preoccupazioni dei moderni governi democratici europei. Una visione non tradizionalista della politica estera da parte dei socialisti italiani non può non prevedere un più netto ed ampio rifiuto nel perseverare la sola logica dell'aperto e permanente conflitto con i Paesi dell'area islamica. Pur allontanandosi dalle visioni di comodo offerte da una concezione ‘tardo-terzomondista’, appare evidente che i processi di democratizzazione di vaste aree del mondo arabo potranno procedere di pari passo ad una nuova e più virtuosa concezione del rapporto fra nord e sud del mondo, contribuendo a correggere i forti squilibri di natura economica fra i continenti e conservando il carattere aperto delle nostre democrazie e dell'Unione europea, la quale può e deve svolgere un ruolo decisivo per scongiurare il serio pericolo di un rinnovato scontro fra civiltà. In questo senso ed in questa direzione é sembrata muovere i suoi primi passi la presidenza di turno inglese. Pur arretrando e sviluppando una serrata critica di fronte alla progressiva burocratizzazione dell'Unione, essa si é infatti posta con forza e vigore il problema di una più larga e vasta cornice politica in grado di aggredire i crescenti problemi europei rinunciando ad una visione semplificata e parassitaria dell'Europa, modificando assetti conservatori e definendo i compiti per una nuova Europa che rappresentano, in questa fase, l'elemento decisivo per allontanare i rischi di una offensiva terroristica ed economica che ripiegherebbe il continente su stesso, incoraggiando le chiusure anziché le aperture di carattere politico ed economico. Occorre, insomma, un nuovo e più concreto ruolo delle nazioni europee che si affacciano sul Mediterraneo, affinché accelerino i processi di integrazione economica e culturale, attraverso una nuova e più efficace strategia difensiva europea non più fondata su scelte autarchiche, ma in grado di produrre risposte collettive e globali che assicurino un profilo omogeneo nell'ambito della politica euro-mediterranea. Una nuova e più efficace azione di coordinamento politico con l’amministrazione americana da parte dell’Europa, dunque, che consolidi il processo di pace in Medioriente e sviluppi con energia la politica del ‘soft-power’, sottraendo all’offensiva islamista l’argomento di una mera e riduttiva occupazione dell’Irak, accelerando i processi di autodeterminazione ed autosufficienza difensiva del governo iracheno, indicando infine un periodo temporale certo per avviare un disimpegno formale dal territorio iracheno concordandolo preventivamente con le Nazioni Unite. Il garofano e la rosa dell’opzione socialista e liberale Accanto all’obiettivo di riaggregare l’area socialista ci siamo posti, non da oggi, il compito di allargare il nostro orizzonte per il rilancio di un’area laico-riformista socialista e liberale, elemento essenziale per la riforma del sistema politico italiano. E’ nostro dovere verificare le condizioni di una possibile convergenza politico-elettorale con i movimenti che esprimono una rappresentanza ed una vocazione laica autentica. E’ innanzitutto la storica formazione radicale che ha conservato il carattere più puro di un associazionismo in continuo movimento, che tuttavia non ha trovato, in chiave nazionale, la propria rappresentanza istituzionale, impoverendo il sistema ed il panorama politico italiano. Una convergenza feconda può e dev’essere ricercata sul terreno della difesa dei valori laici, sulla difesa delle garanzie e dei diritti civili e delle libertà, sulla promozione di virtuose riforme sul terreno istituzionale ed economico, rinnovando un’antica e consolidata amicizia politica maturata sul piano parlamentare ed elettorale negli anni ‘80 oltreché sul terreno della promozione e della difesa di leggi fondamentali quali il divorzio, l’aborto e per la responsabilità civile dei giudici. La tradizione del socialismo italiano unita alla rosa del socialismo europeo sono, dunque, i simboli dei diritti civili. Il partito ed il suo rinnovamento Il nostro partito è il frutto della costruzione dei suoi militanti, dei suoi iscritti e dei suoi elettori, che nelle diverse tornate elettorale in cui si è presentato il nostro simbolo hanno suffragato le nostre liste e i nostri candidati di importanti consensi elettorali. Vanificato il risultato conseguito in occasione dell’appuntamento elettorale europeo, il voto delle recenti elezioni regionali ha inevitabilmente finito per seguire la spirale negativa dell’intera coalizione al fianco della quale ci siamo schierati nella maggioranza delle regioni italiane chiamate al voto. Un segnale fortemente negativo lo abbiamo dovuto registrare anche nelle grandi aree urbane del Paese dove prevalenti sono le motivazioni politiche del voto, quel cosiddetto voto di opinione che non ci raggiunge e non aggancia più, per ragioni politiche o ideologiche, la formazione erede del Psi anche quand’essa si presenta come unica espressione simbolica di quella tradizione. Il Nuovo Psi è certamente percepito come un orgoglioso difensore di una grande storia. Ma la farraginosità e la esiguità dei nostri strumenti di persuasione e di raggiungimento del consenso elettorale, uniti alla straordinaria capacità dei competitori di occupare il terreno del mercato elettorale, sono alla base dei nostri insuccessi nelle aree urbane. I nostri elettori sono un insieme di continuità tradizionale, ma anche di sorprendente e felice combinazione di voto nuovo e giovane. Il voto al Nuovo Psi è innanzitutto un voto alla formazione politica che non ha abiurato e abdicato alla memoria del Psi ‘craxiano’ e che ha ritenuto doverosa la difesa e la riproposizione, in chiave attuale, di quel periodo. Tuttavia, resta un voto fortemente fidelizzato, di ‘nicchia’, cui è difficile collegare una nuova linfa vitale se sul piano della proposta politica e programmatica non viene agganciata un’opzione di prospettiva politica che declini le proprie generalità puntando sul futuro, sul rinnovamento sulla nuova funzione del socialismo riformista liberale e democratico. Per questa ragione, diviene fondamentale mantenersi saldi sulle ragioni e sui principi della nostra iniziativa politica sapendo adattare, nelle condizioni attuali, la nostra posizione politica non rinunciando a scelte che, volta per volta, possiamo ritenere tattiche o finalizzate alla ricostruzione di una forza politica di tradizione socialista. Per questo insieme di ragioni rifiutiamo l’assimilazione dentro i ‘partiti unici’, di destra o di sinistra, e ogni scorciatoia unitaria ed elettorale che cancellino i principi ispiratori e le identità politiche socialiste. Il Partito deve rinnovarsi in tutti i suoi livelli, nella sua capacità aggregativa e definire forme nuove di adesione degli iscritti e degli aderenti adeguandole alla società moderna attraverso i sistemi dell’informatica. Il rilancio di una politica socialista Lo spazio per un rilancio del socialismo nasce da un’analisi condivisa: quella di un diffuso deficit e, contemporaneamente, di un bisogno crescente di politica, per governare processi economici e sociali sempre più complessi, a livello globale come nelle aggregazioni di base. Manca in particolare una concezione della politica intesa come capacità di interpretare la realtà che muta a velocità straordinaria e come guida di processi altrimenti in conflitto e bisognosi di mediazione. Ma la politica manca perché mancano nel sistema politico italiano valori identitari. L’identità di un partito è un patrimonio di valori civili, religiosi, culturali e politici, che danno una chiave di interpretazione ai fenomeni sociali, economici e di costume e che consentono poi di offrire efficaci risposte ai nuovi bisogni della società. Il sistema maggioritario ha avuto qualche pregio, ma anche il grande imperdonabile difetto di cancellare l’identità democristiana e socialista, sul versante conservatore e su quello riformatore del quadro politico. L’identità comunista è invece presente, ma è utile più a catalizzare il dissenso che a formulare proposte di governabilità. La politica in Italia è oggi schematicamente rappresentata da una cultura che assegna meccanicamente al mercato il compito di produrre ricchezza ed a sé il compito di una sua blanda ridistribuzione e di una regolamentazione dei conflitti. Le differenze tra i due schieramenti sono di sensibilità nel percepire i bisogni, mai di qualità nell’anticiparli e nel soddisfarli. In questa competizione, dai confini assai sfumati, si perde molto spesso di vista l’esatto significato di ‘destra’ e ‘sinistra’, i valori di cui ogni schieramento è portatore, un rapporto solido e visibile tra gli interessi rappresentati e la rappresentanza politica. Di qui il crescente distacco tra opinione pubblica e rappresentanza politica, l’intercambiabilità dei ruoli accentuata dal sistema maggioritario e dalla girandola di cambiamenti che non cambiano nulla. I partiti sono proliferati, diventando meri comitati elettorali o restando nuclei organizzativi di base in grado, al più, di diffondere gli orientamenti delle oligarchie dominanti ma incapaci di rappresentare i bisogni emergenti e di prospettare soluzioni coerenti in un rapporto biunivoco virtuoso. In questo contesto desolato e desolante si colloca naturalmente l’idea di socialismo, di un rinnovato partito socialista, di un riformismo gradualista, equidistante da un concetto ecumenico di liberismo economico generatore automatico di benessere sociale, ma anche da una visione veterocomunista dello sviluppo capitalistico, nel quale i diritti sono il frutto di valori autoreferenziali che esistono solo perché vengono sbandierati. No, dunque, ad un partito crogiuolo, dove gli interessi ed i bisogni di strati e ceti diversi sono intercambiabili, e no ad un partito legato a valori e gerarchie che la Storia ha da tempo condannato e la realtà dei tempi e dei problemi si incarica di definire inadeguati. Il partito socialista è ancorato a valori guida che reinterpretano la passata tradizione alle esigenze ed alle problematiche di una società in continua e veloce trasformazione. Per i socialisti essere riformisti significa, innanzitutto, fare una cernita attenta delle risorse, una selezione rigorosa dei bisogni, una griglia dei diritti e dei doveri nel rispetto della libertà individuale, una individuazione degli obiettivi realisticamente possibili a medio termine. Certezza dei diritti, dei bisogni, dei meriti I diritti non esistono perché sono sanciti, non sono immutabili e non sono illimitati, anzi esistono perché hanno confini, esistono gerarchie. Il diritto non è tale se non ha limiti in quello altrui. Diritto alla salute, diritto allo studio, diritto al lavoro, per citare i principali, sono ormai concetti desueti ed impropri ai quali strati crescenti della popolazione guarda con risentita indifferenza, perché li ritiene tanto più necessari e dovuti quanto più lontani ed irrealizzati. Non basta dire che sono dovuti per averli, non basta imputarne la mancanza all’avversario politico, alla congiuntura internazionale, all’ingordigia delle classi dominanti. Eppure paghiamo sempre più per tutelare la salute e sempre meno otteniamo in termini di qualità e quantità delle prestazioni. Invochiamo il diritto allo studio e sempre meno giovani escono con titolo di studio da far valere sul mercato del lavoro. Il lavoro è sancito nella nostra Carta costituzionale come un diritto inalienabile e diventa ogni giorno più precario ed inadeguato. Certezza del diritto impone la necessità di dire, per esempio a proposito di sanità, che la cura della salute per tutti, tempestiva, adeguata, gratuita, è impossibile da ottenere, demagogia pura il sostenerlo, e copre, da un lato, i privilegi di chi ha le risorse per curarsi adeguatamente in Italia o all’estero e, dall’altro, equipara con la più grande delle ingiustizie chi non ha pagato una lira e chi ha versato risorse per una vita lavorativa. Certezza del diritto impone la necessità di dire, per esempio a proposito di studi e di diplomi, che oggi non è più un obiettivo il titolo di studio, ma una preparazione adeguata al mercato del lavoro. E compito dello Stato diviene quello di garantire l’eccellenza della formazione, premiando chi la fornisce e assicurando ai meno abbienti dotati le risorse per ottenere l’eccellenza della formazione. Il lavoro non è un diritto, se non come aspirazione, ma un valore ed il frutto di risorse ben utilizzate. Pretendere che tutti lo abbiano ed accettare che convivano lavori privati sempre più precari e discontinui e lavori pubblici protetti ed improduttivi, è puro esercizio demagogico. Sovvenzionare settori industriali maturi e sostenere la ricerca e l’innovazione in settori d’avanguardia è esercizio trasformistico ed improduttivo a saldo zero. Ventilare l’esigenza della mobilità professionale e non incalzare il sindacato a tutelare il lavoratore con un suo coinvolgimento istituzionale è un’azione conservatrice per chi la fa e per chi la subisce. Ma precisare il contenuto dei diritti, ancorandoli a limiti precisi, significa anche delineare una precisa gerarchia dei bisogni e soprattutto una elencazione certa dei soggetti percettori e del grado di necessità relativa. Non si può diversamente né rappresentare i bisogni e gli interessi dei più deboli dei più meritevoli e tanto meno fregiarsi del diritto di rappresentarli col titolo di ‘partito della sinistra’. Con questa traiettoria diventa chiaro anche il percorso di una eventuale riunificazione dei socialisti e si misura con parametri certi l’appartenenza ad uno schieramento piuttosto che all’altro, ferma restando la vocazione e l’obiettivo dei socialisti di collocarsi come perno di un ampio schieramento di sinistra, davvero gradualista e davvero riformista. Libertà, progresso, uguaglianza Ma se un singolo valore, una battaglia politica, una parola d’ordine non sono in grado da soli di connotare il socialismo del XXI secolo, né tantomeno di etichettarlo in una formula ed in uno schieramento, cos’è oggi il socialismo? Il socialismo è libertà, non come espansione illimitata della sfera d’azione individuale ma come conquista sofferta di spazi di intangibilità delimitati dalla libertà altrui. Il socialismo è progresso, non inteso come un processo storico-deterministico di marxiana memoria, ma più modestamente ed assai più concretamente come faticosa conquista di condizioni migliori per ogni uomo, per ogni comunità, per ogni popolo, sotto il profilo morale, culturale, materiale. Il socialismo è uguaglianza, non come appiattimento identitario, velleitario ed impossibile, ma come pari opportunità concessa ad ogni uomo, secondo una gradualità ed un processo, che non toglie a nessuno per dare ad altri, ma per effetto ‘osmotico’ e sotto lo stimolo della solidarietà faccia crescere tutti coloro che lo vogliono davvero. I diritti ed i doveri, dunque, i meriti ed i bisogni, da categorie astratte e troppo spesso vuote di contenuti, vanno filtrati attraverso questi valori-obiettivo per acquistare nuovi significati. Le classi sociali non assumono più, dunque, i connotati di stratificazioni impermeabili e codificate. La stessa persona è, di volta in volta, ricca e povera, bisognosa di aiuto e degna di percorsi prioritari, titolare di diritti e soggetta a doveri. Così il giovane volenteroso e capace ha diritto all’eccellenza degli studi, non al titolo di studio ad ogni costo. L’anziano deve poter godere di un’assistenza sanitaria efficiente e gratuita, se è indigente, ma a costi crescenti con il crescere del suo reddito, almeno fino a quando l’eccellenza per tutti è giudicata impossibile. Il compito di legiferare, innovare, gerarchizzare i diritti ed i doveri, i meriti e i bisogni è un processo sempre nuovo e diverso. Perciò, esiste uno spazio ampio per un socialismo di libertà, di progresso, di uguaglianza, elaborato su basi nuove ma su valori antichi, capace di dare risposte di speranza e di certezza ai troppi che hanno perduto ogni fiducia nella politica. Un nuovo soggetto politico per il Paese E’ dunque necessario costruire un nuovo soggetto politico frutto della fusione delle varie esperienze socialiste dai forti connotati laici, liberali e riformisti che non sia la semplice sommatoria delle forze dello Sdi, del Nuovo Psi, di Socialismo e Libertà e dei vari addetti ai lavori, ma aperto alla società, ai giovani, alle donne, ricco di contenuti e capace di parlare al Paese offrendo quelle risposte che altri, in questo decennio buio, non sono riusciti a fornire. Un progetto che non nasce oggi, che è stato a lungo coltivato ed incubato, messo in campo nelle elezioni europee anche se poi accantonato per l’assenza, allora, di condizioni e presupposti favorevoli che oggi, invece, si sono fortunatamente avverati con la crisi del partito riformista, della Fed e la fine dell’alleanza del Nuovo Psi con la Casa delle Libertà - unanimemente sancita dall’Assemblea Nazionale del 18 luglio u. s. –, eventi che rendono l’Unità socialista, nell’ambito del centro-sinistra, irreversibile e senza alternative. Un progetto che non serve ai socialisti per tornare protagonisti, per incidere e contare di più, ma al Paese ed alla stessa sinistra, incapace di affermare un primato in quanto debole, senza radici proprie e riferimenti, priva della sua componente riformista ‘storica’, rappresentata dai socialisti, che in passato l’ha resa grande, forte ed influente, in Italia e nel mondo. Willy Brandt, uno dei padri della socialdemocrazia in Europa, diceva che uno dei compiti del socialismo era quello di “rinnovarsi, crescere, evolvere”. Per questo e per i socialisti italiani diventa un imperativo uscire dall’isolamento politico, sapendosi rinnovare annegando tutti i nostri errori, mantenendo salda la memoria del nostro passato, conservando la parte migliore di ciò che siamo stati. Saremo quindi un partito del socialismo liberale d’avanguardia, novità fondata sulla storia e sull’avvenire di una nuova e più idonea versione del riformismo italiano, se sapremo acquisire nuovi interlocutori nella società prima ancora che nel variegato arcipelago delle liste e dei partiti. Per questa ragione, il nostro è un lungimirante progetto che restituisce al socialismo italiano il ruolo ed il compito perduto e strappatogli in questi anni. -------------------------------------------------------------------------------- Allegato A Eguaglianze e disuguaglianze La difficoltà di continuare a finanziare attraverso il prelievo fiscale una spesa sociale imponente e crescente, in un contesto di rigidità di bilancio stabilita a livello sovranazionale, pone dilemmi analoghi a tutte le società europee anche se ciascuno Stato presenta dati di base specifici e, di conseguenza, viene elaborando risposte almeno parzialmente originali. Così, ad eccezione della Svezia che nella continuità ormai quasi settantennale di governi e di esperienze socialdemocratiche ha mantenuto pressoché inalterato il modello originario di welfare universalistico finanziato da un’imposizione fiscale elevatissima, gli altri Paesi europei, pur nell’alternanza di modelli e di esperienze di governo diverse se non opposte, sono via via venuti elaborando risposte revisionistiche dell’impianto originario dei loro welfare. Il caso più noto e conclamato di revisione/riduzione dell’ampiezza di interventi e della qualità di prestazioni dello stato sociale è quello del Regno Unito, luogo di nascita e di elezione del welfare novecentesco, prima liberal e poi laburista. Eppure, anche qui, a guardar bene, nell’arco temporale ormai amplissimo che copre le esperienze dei governi di Margaret Thatcher, dei suoi successori conservatori (1979 – 1997) e dei due governi di Tony Blair (1997 – 2003) le ‘rivoluzioni’ sono più apparenti che reali. L’entità della spesa sociale complessiva, pure a fronte di una ciclica riduzione del prelievo fiscale, è diminuita in misura modesta. Essenzialmente, sul fronte dell’assistenza e dei sussidi di disoccupazione, restando pressoché inalterate le spese per sanità, istruzione e previdenza. La vera rivoluzione restauratrice e liberista del ventennio politico segnato dall’insolita continuità tra conservatori e New Labour risiede, infatti, nelle scelte di privatizzazione, deindustrializzazione, finanziarizzazione globale con la conseguenza drastica perdita di potere rappresentativo e negoziale delle Trade Unions. Il bilancio provvisorio di questa fase ci consegna l’immagine di una società più ricca e più dinamica, che ha accresciuto le disuguaglianze relative di reddito, aggravato con le condizioni di povertà ma ha anche notevolmente accresciuto le opportunità per i più. Decisamente diverso lo scenario delle principali nazioni dell’Europa continentale. In Francia le performance dello Stato colbertiano e del suo rinnovato interventismo attraverso pubbliche amministrazioni efficienti ha compensato i limiti del capitalismo nazionale ed anche le permanenti rigidità del welfare, riuscendo con uno sviluppo sostenuto a compensare costi crescenti. Solo di recente, manifestandosi segni di rallentamento della crescita, si vengono ponendo con urgenza problemi di riforma sociale, innanzitutto del sistema previdenziale e dei costi degli apparati pubblici. E, tuttavia, la Francia da tempo ha perso posizioni rispetto al Regno Unito, soprattutto nella dimensione globale dell’economia mondiale. La Spagna ha compiuto un percorso eccezionale, a partire da condizioni di netta inferiorità. Tuttavia, il suo PIL resta la metà di quello italiano e i suoi indici di disoccupazione decisamente elevati. Ciò rende problematiche, per il futuro, le prestazioni di uno stato sociale orientato al pragmatismo. Le difficoltà maggiori le attraversa la Germania. I costi sottovalutati della riunificazione hanno accelerato la perdita di competitività e di dinamismo aggravando enormemente la spesa sociale, mentre almeno finora, né i governi democristiani, né quelli socialdemocratici sono riusciti a riformare un’economia sociale di mercato un tempo vanto del Model Deutschland, con le sue procedure di concertazione tra Stato, imprese, sindacati e banche. Finalmente, anche il gigante tedesco sembra determinato ad affrontare la riforma del sistema pensionistico per contenere la spesa, per liberare risorse verso altri impeghi – segnatamente l’istruzione che appare in declino – e per liberalizzare il mercato del lavoro. Se guardiamo ora al panorama sociale dell’Italia contemporanea sarà più facile rilevare, al di là delle analogie profonde con le altre società europee, le peculiarità nazionali. Sul fronte delle analogie riscontriamo: rigidità di bilancio conseguenti alle politiche inaugurate dai Trattati; impossibilità di elevare ulteriormente il carico fiscale per finanziare il sovraccarico di domanda determinato da una popolazione più agiata e più istruita, più vecchia e perciò più numerosa nelle aree di bisogno. In conclusione, in tuta Europa e anche in Italia, la spesa pubblica non è diminuita, i bisogni sono aumentati notevolmente, il saldo è stato pagato con una diminuzione della qualità offerta dai servizi di welfare, con aumento dei costi e delle inefficienze e mancati incentivi al miglioramento del personale e all’innovazione delle strutture, soprattutto nel campo dell’assistenza, della sanità e dell’istruzione, ma anche con il mancato accesso ala tutela giudiziaria e all’offerta alloggiativa. Questi problemi si presentano aggravati in Italia per la maggiore incidenza della spesa previdenziale che erode le possibilità di investimento negli altri comparti di spesa sociale; per l’assenza di competizione tra gli erogatori pubblici, privati e ONP in assenza della sussidiarietà fiscale (la percentuale sul PIL del terzo settore o area del non profit è, in Italia, dell’1,5 – 2% a fronte di una media europea dell’8%); perché il tasso di occupazione medio italiano è il più basso d’Europa (53%), il che comporta che ogni lavoratore italiano deve mantenere un numero di persone più alto che in ogni altra grande nazione europea. Infine, il proliferare di una miriade di gruppi dominati da interessi corporativi ed antagonistici vari, cui sono stati assicurati finanziamenti a pioggia in un meccanismo che a catena ha spinto a moltiplicare richieste e concessioni comparative. Nelle analisi e negli orientamenti di riforma preferiamo parlare di ingiustizie piuttosto che di disuguaglianze e di equità piuttosto che di eguaglianze perché siamo convinti che il tentativo del socialismo moderno, del socialismo non come ideologia ma come libertà, cioè del riformismo, non consiste nel rendere uguali gli approdi, i risultati e neppure nel remunerare tutti alla stessa maniera. Pensiamo, invece, che il riformismo socialista, il suo fine e il suo significato consistano nel costante impegno politico, sociale e di governo di porre tutti o il più gran numero possibile di uomini e di donne in condizione di disporre delle più larghe opportunità di vita e di scelta, sia rinnovando per tutti le condizioni ambientali più favorevoli allo sviluppo della personalità umana, sia risarcendo chiunque, per qualunque motivo, sia stato danneggiato, ritardato, offeso. Senza una visione lucida, critica e pratica, dell’insieme dei fenomeni e dei poteri – economici, istituzionali, internazionali, culturali e tecnici – che formano la società moderna, la battaglia contro l’ingiustizia rischia continuamente l’episodicità e l’arretratezza lasciando così libero campo a chi pensa e vuole la modernizzazione senza sviluppo sociale e affronta il tema dell’ingiustizia come questione residuale, in termini di assistenza ai vinti e di compassione paternalistica per le vittime del progresso. E’ questo l’approccio del compassionate conservatorism della destra liberista, laica o cristiana, diverso e, per alcuni aspetti, opposto a quello dei riformisti socialisti e liberal e a quello della dottrina sociale cattolica attualizzata da Papa Giovanni Paolo II, che vede nella giustizia, nella libertà e nell’amore i pilastri della pace. In società come la nostra l’ingiustizia si misura in tante maniere diverse, poiché nella realtà ha tante distinte manifestazioni. C’è, costitutiva e fondante, l’esperienza del dolore, la sua diseguale ripartizione, che alimenta la presenza e la speranza delle fedi religiose, ma anche della solidarietà laica, della creazione artistica, della ricerca scientifica, media e psicologica. C’è l’ingiustizia del diritto quando in suo nome si infliggono pene ingiuste e senza risarcimento, quando si nega di fatto l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, quando di fatto si nega il diritto alla difesa. Altrove, negli Stati Uniti e in Europa, si diffondono esperienze di Legal Aid Society che colmano, almeno parzialmente, le lacune dell’astratta eguaglianza, i fallimenti del gratuito patrocinio, le ipocrisie delle difese di ufficio. Sviluppare il no – profit nella dimensione legale è tanto più necessario e urgente quanto più si sviluppa la società multietnica con le sue contraddizioni e il suo carico di discriminazioni destinate a rinverdire e moltiplicare quelle autoctone. Basti pensare che in Italia su 100 italiani denunciati all’autorità giudiziaria, 14 finiscono in carcere, mentre su 100 extracomunitari denunciati, ben 65 fanno l’esperienza del carcere, che si prolunga – anche con gravi costi per la collettività intera – per assenza di assistenza dentro e fuori il carcere. C’è l’ingiustizia negli accessi impossibili ai gradi più elevati di istruzione per tante ragazze e ragazzi che ribadisce nelle età più giovani e prolunga per tutta l’esistenza gli svantaggi della lotteria della vita. Ingiustizia aggravata dalla circostanza che spesso le famiglie meno abbienti sono comunque obbligate, pagando le tasse, a partecipare al finanziamento di scuole e università che i loro figli non potranno mai frequentare. C’è l’ingiustizia di chi, per poter scegliere il proprio percorso scolastico, le tasse le deve pagare due volte; allo Stato e all’istituto privato. La successione convulsa e contraddittoria di riforme e controriforme nel settore scolastico e universitario non sembra aver modificato i dati di fondo: record di abbandoni scolastici nell’età dell’obbligo; insufficiente durata dei percorsi formativi; record negativo nel numero di diplomati e di laureati; arretratezza e astrattezza dei percorsi educativi non bilanciati dall’introduzione di superficiali innovazioni e dal declino delle professionalità degli educatori. La formazione professionale, sia nell’alternativa scolastica, sia dopo, appare marginale rispetto all’ampiezza e alla serietà di altri contesti europei. Le ultime riforme del centrodestra, al di là del merito, restano al momento proclami in assenza di risorse e di investimenti. Si tratta di ritardi colpevoli e scandalosi, destinati a cronicizzare la piaga della disoccupazione giovanile specie meridionale. C’è ingiustizia nel sistema sanitario e un percorso sussultorio di riforme illuministe contraddette da misure restauratrici di privilegi professionali unite all’insufficiente finanziamento, all’inflazione e alla obsolescenza delle strutture, mina il sistema sanitario nazionale. Senza aver predisposto alternative convincenti si torna a forme mutualistiche e a convenzioni privatistiche. Nel campo della salute, più che altrove, la competizione tra erogatori diversi – pubblici, privati, ONP – è essenziale, ed è fondamentale che essa sia regolata e controllata organizzando la sussidiarietà verticale tra diversi livelli di governo e quella orizzontale tra agenti diversi che cooperano nell’autonomia. Neppure le ricorrenti invocazioni alla regola prevalente del sistema assicurativo pare risolutiva ed equa. Non garantisce l’entità delle risorse necessaria a proteggere le generazioni più anziane, più povere di reddito, più costose e, quindi, scarsamente appetibili per gli assicuratori. D’altra parte, il servizio sanitario pubblico, pur oberato di compiti e di burocratiche inefficienze, sembra ormai privo di obiettivi e le sue professionalità, non motivate da sollecitazioni e stimoli adeguati, registrano accanto ad aree di eccellenza, vaste zone di precarietà e parassitismo. Il vertice dell’ingiustizia sociale è la povertà: il suo termometro più veritiero, accanto agli indici di disoccupazione, misura le condizioni degli anziani ai minimi pensionabili, il numero dei disabili, gli esclusi, gli emarginati, tra i quali si addensa una quota crescente di immigrati regolari ed irregolari. Se confrontiamo i dati relativi delle povertà italiane con quelli degli altri Paesi europei o con i dati OCSE balzano agli occhi due evidenze. La prima evidenza è che la quota povertà, in Italia, è maggiore che in tutti gli altri Paesi industrializzati. La seconda evidenza è che le disuguaglianze di reddito tra le altre fasce di popolazione sono, invece, inferiori rispetto ad altri Paesi. Insomma, abbiamo meno disuguaglianze, ma più povertà. Il problema principale della giustizia sociale, in Italia, non è dunque quello di ridurre ulteriormente le distanze tra le diverse categorie professionali o dentro la stessa professione. Anche questo problema conterà, certo, ma il problema principale è quello di redimere, di recuperare, di emancipare un’area di povertà troppo vasta e troppo intensa, ristabilendo contemporaneamente sull’altro fronte, quello della professionalità, un equo scambio tra prestazioni professionali, reddito e tempo liberato dal lavoro. Assieme al bisogno, quello della professionalità è l’altro grande tema del riformismo moderno. La professionalità non è, infatti, confinata alla dimensione produttiva. Sotto l’incalzare dei nuovi bisogni e della rivoluzione tecnologica, l’amministrazione pubblica, l’organizzazione sanitaria, la rete dei servizi, dei trasporti, delle comunicazione e della distribuzione e il sistema di credito hanno creato e continuano a creare l’esigenza di nuove figure professionali. Dobbiamo avere il coraggio e la coerenza di questa sintesi. Dobbiamo a tutti costoro dare una voce, una rappresentanza, una speranza, una comune cittadinanza politica. Se sarà abbandonato o trascurato o, il che è lo stesso, appiattito nella sua autonomia e nella sua differenza dall’ingiusto egualitarismo contrattuale, legislativo e sindacale, il nuovo plurimo e variegato ceto professionale si troverà di fronte solo due strade: la chiusura corporativa o, peggio, la strada di scegliere fuori o contro la sua storia che per lo più non coincide proprio con quella dei rampanti o della società delle gomitate, ma è la storia di chi, nato nelle famiglie del popolo e del ceto medio, ha lavorato, studiato, si è preparato e professionalizzato per migliorare le proprie condizioni e per garantire un avvenire migliore ai propri figli. Da parte sua, se dimentica le sue origini, se trascura le sue responsabilità, se ignora le aspettative di solidarietà, questo ceto sarà costretto a barattare le sue possibilità di autonomia e di socialità con più denaro, con più carriera, con più successo. Intendiamoci, c’è un rapporto inevitabile tra professionalità e denaro. Ma un conto è un rapporto, un conto è accettare un dominio, ridurre l’etica della professionalità alla molla del denaro. La professionalità abbandonata all’esclusivo referente del potere e del denaro perde il suo carattere di novità, la sua faticata indipendenza, il suo valore sociale, perde infine il suo pregio e il suo merito. Se davvero vogliamo un riformismo moderno la nostra cultura e il nostro lavoro politico devono esprimere questo tentativo: definire un progetto che interpreti anche l’universo delle nuove professionalità, le loro esigenze individuali e collettive di razionalità e di equità; di rigore e di nuove e più estese opportunità. Qui è possibile ai socialisti un incontro, assai meno agevole per chi è condizionato dalle oligarchie e dalle aristocrazie del potere e ad esse vuole annettere anche i nuovi ceti emergenti. I ceti tecnici e intellettuali che emergono dalla rivoluzione tecnologica, se comprendono il senso della loro epoca, terranno certo un conto orgoglioso di sé e del valore della conoscenza, del sapere che rappresenta potere, anche se diverso da quello della forza, della proprietà o del denaro. Ma saranno portati anche a tener conto almeno di quelle esigenze di giusta eguaglianza, di pari opportunità, di pari chances di vita come consentirono a loro, così e più largamente, potranno consentire ai loro figli di emergere e di affermarsi con le proprie forze. -------------------------------------------------------------------------------- Allegato B Sistema elettorale Il sistema elettorale maggioritario, in vigore in Italia da undici anni, è figlio della crisi politica più profonda conosciuta dalla nostra repubblica, che ha visto contestualmente l’azzeramento dei partiti storici che avevano governato il Paese sin dalla nascita dello Stato repubblicano. A livello mediatico, la causa principale della frantumazione di questi partiti è stata individuata nella degenerazione degli stessi che, da strumenti costituzionalmente riconosciuti e garantiti per concorrere, con metodo democratico a determinare la politica nazionale, venivano oramai percepiti nel sentire comune come gli unici responsabili della mancanza di tenuta democratica delle istituzioni e, quindi, di tutte le crisi morali e materiali che il Paese stava attraversando. Mentre, non venivano sufficientemente argomentate più profonde motivazioni riscontrabili nel crollo del comunismo internazionale, la cui fisicità veniva segnata dalla caduta del Muro di Berlino, a significare l’insufficienza, ormai, dell’assetto mondiale geopolitico ed economico-finanziario uscito dagli accordi di Yalta. In Italia e forse oltre i confini, i ‘poteri forti’ ritennero, in modo semplicistico, che i nuovi scenari che si aprivano potessero essere governati da una nuova classe dirigente, includendo in questa il più forte partito comunista dell’occidente, come se a farne un partito occidentale (in termini di alleanze, di mercato, liberale) bastasse una frettolosa Bolognina ed essere accolto nel gruppo dei partiti socialisti democratici europei. In una fase di crisi profonda, quindi, della politica nazionale e, attraverso essa, della più alta istituzione democratica delle società moderne – in parlamento – si è pensato che la sostituzione del sistema elettorale proporzionale con un sistema maggioritario, ancorché mitigato da una quota proporzionale, potesse abbattere il tarlo della partitocrazia e ridare così slancio alle istituzioni, riconquistando in esse la fiducia dei cittadini. L’esperienza di questo ultimo decennio, però, ci fa ben comprendere quali siano stati gli errori di sottovalutazione o, quanto meno, come si sia agito in modo repentino sotto la spinta emotiva. Intanto, il passaggio da un sistema elettorale ad un altro del tutto avverso non poteva innestarsi sull’assetto istituzionale preesistente ma doveva portare ad una riforma degli organi e dei poteri costituzionali, che non è avvenuta come invece era già avvenuto nella vicina Francia. Il maggioritario, per dare i risultati invocati: stabilità, governabilità, alternanza, maggiore efficacia dell’azione di governo, richiede la presenza di almeno due schieramenti politici alternativi nei programmi e, quindi, ciascuno espressione di culture e strategie tra loro omogenee. Ma nessuno dei due elementi è ancora presente sulla scena nazionale. Possono dirsi omogenei schieramenti che assommano ciascuno più partiti e formazioni, le più diverse e distanti, e alcune espressioni di interessi particolari? Quali affinità vi sono o vi potranno essere tra il partito della Rifondazione comunista e l’Udeur, la stessa Margherita o l’Italia dei Valori? E tra Lega Nord che ha per obiettivo dichiarato la disarticolazione dello Stato nazionale e l’abolizione del principio della sussidiarietà ed An nel cui elettorato il collante primario è lo Stato/Nazione e la difesa degli apparati amministrativi? Oltre che per vincere, ciascun cartello ha bisogno di reclutare truppe di vario genere e in varie forme senza poter prescindere dal contributo determinante ma paralizzante delle ali estreme di ciascun schieramento cui viene conferito un abnorme potere di condizionamento se non di veto. Non si esce da questo schema con la fuga verso la costruzione dei partiti unici o comunque denominati, obiettivo che ha subito un processo di forte accelerazione specie dopo le ripetute sconfitte elettorali (europee, provinciali, regionali) subite dal Polo delle Libertà e, in particolare, dal movimento politico-partitico definito Forza Italia. La realizzazione di tale progetto da parte dell’attuale Premier sembra più dettata da una esigenza di autodifesa in vista di una probabile sconfitta elettorale del 2006, anziché dalla volontà di aiutare il sistema politico ad uscire dalla crisi di governabilità in cui è caduto col meccanismo maggioritario, accentuando i caratteri illiberali attraverso lo sbocco verso un bipartitismo destinato a portare al collasso definitivo il sistema democratico del nostro Paese. Il Nuovo Psi, sin dalla sua nascita, attento custode dell’identità e dell’autonomia socialista e del pluralismo politico e democratico, aveva definito tattica e transitoria la propria alleanza con la Casa delle Libertà; identità ed autonomia che hanno avuto pieno riscontro nelle elezioni per il parlamento europeo del 2004 con la lista ed il simbolo “Socialisti uniti per l’Europa”, che ha consentito l’unico vero risultato positivo al Nuovo Psi, sia pure col modesto 2% sul piano nazionale, raggiunto in tutti questi anni. Questo sistema bipolare con la presenza nel governo del Polo di una formazione come la Lega Nord, espressione di un elettorato sociologicamente e geograficamente definito, pur minoritaria, ma con forte potere di ricatto, ha rimosso dal programma governativo la ‘questione Meridionale’. Strumento ed obiettivo della politica della Lega Nord è la devoluzione, espressione di una nuova organizzazione statuale in cui i poteri e le diverse competenze statali in materia di sanità, istruzione e sicurezza locale, vengono trasferiti alle singole regioni, con la diretta conseguenza che le relative risorse finanziarie prodotte restano utilizzate nella regione di provenienza, aggravando ulteriormente gli squilibri territoriali e sociali delle zone più svantaggiate del Paese, con grave danno per la coesione e l’unità nazionale. Le conseguenze ultime di tale processo non potranno non ricadere sul sistema-Italia, che vedrà ulteriormente ridursi la base produttiva ed occupazionale e la stessa competitività del Paese. -------------------------------------------------------------------------------- Allegato C Questione meridionale Le regione meridionali, nell’ultimo decennio, hanno visto allargarsi il divario non solo nei confronti delle altre regioni italiane, ma anche quelle dell’area Euro meno sviluppate, che comporta un maggiore impegno da parte del governo italiano verso la Commissione Ue per una reale politica di sviluppo e coesione, al pari di quanto ha fatto la Germania con la destinazione di maggiori fondi per il lander dell’Est, mentre il ‘protocollo sull’Italia’, dal contenuto meridionalista, rimane inattivato e viene mantenuta al rango di mera ‘Dichiarazione concernente l’Italia’. Occorre altresì un maggiore impegno finanziario del governo centrale tuttora inadempiente rispetto al ‘patto con gli italiani’, in cui si sanciva una politica per il Mezzogiorno, in grado di accrescere il tasso di sviluppo di questa importante area (173 della popolazione del Paese), superiore a quella delle aree forti. Una politica alta di sviluppo e coesione dell’intero Mezzogiorno non può essere perseguita mediante un generico impegno finanziario, né mediante interventi ordinari e slegati tra di loro, bensì attraverso una coerente programmazione di obiettivi, risorse e strumenti concertati tra Commissione europea, governo e regioni meridionali, le cui problematiche sono sostanzialmente analoghe a prescindere dal colore dei governi regionali. Una nuova politica di sviluppo e coesione deve essere attivata mediante: 1) un immediato avvio delle dotazioni infrastrutturali: vie del mare; corridoi europei; alta velocità; cablaggio delle principali città meridionali; 2) revisione della normativa comunitaria e nazionale in materia di incentivi, attraverso il riconoscimento di una ‘eccezionalità-Mezzogiorno’, al fine di pervenire a: individuazione di comparti e settori merceologici di produzione ad alto valore aggiunto e suscettibili di esportazione, da incentivare in via prioritaria; infrastrutture materiali e immateriali di servizi reali, incentivazione mirata, fiscalità di compensazione e azzeramento della contribuzione sociale. Il fallimento della strategia della ‘locomotiva’ Il voto delle consultazioni regionali del 3 e 4 aprile 2005 ha registrato nel centro-sud il più consistente spostamento elettorale dal centrodestra al centrosinistra, con un cambio di maggioranza nelle regioni Lazio, Abruzzo, Puglia e Calabria, precedentemente governate dalla Casa delle Libertà. Tutte le consultazioni – suppletive, regionali, amministrative – svoltesi nel centro-sud negli ultimi anni hanno confermato questo trend, accompagnato da una caduta verticale dei consensi per il partito denominato Forza Italia. La crisi elettorale della casa delle Libertà nel meridione va interpretata come un segnale inequivocabile di delusione dei cittadini per le politiche economiche e sociali messe in campo da un governo e da una maggioranza fortemente condizionati dalla lega Nord e, quindi, incapaci di assumere la ‘questione meridionale’ come nodo fondamentale dello sviluppo dell’intero Paese. E’ cresciuto il divario nord – sud, tant’è che è ripreso il processo di emigrazione intellettuale di flussi migratori di cervelli che priva e regioni meridionali delle risorse umane indispensabili per lo sviluppo. Le risposte fornite dal Premier e dalla Casa delle Libertà al problema meridionale dopo il voto regionale appaiono deboli e contraddittorie, tutte rivolte alla riconquista di un consenso perduto, ma senza che esse formino un progetto credibile e complessivo. Si pensi all’estemporaneità della proposta di vendita delle spiagge, ma anche alla preoccupante riproposizione dell’asse Lega- Tremonti nella formazione del Berlusconi ter. Infine, la rincorsa al modello federale dello Stato imposto dalla lega Nord è stata percepita dall’elettorato centro-meridionale come un attacco all’unità nazionale, ma soprattutto come un attacco ai diritti essenziali come la salute e l’istruzione, con il conseguente pericolo di aggravamento degli squilibri nord – sud in settori vitali della società. Occorre che nel Paese si rafforzi la convinzione che l’Italia non cresce perché mantiene inutilizzate e immobili le grandi risorse umane e naturali del Mezzogiorno. Se il sud cresce, il Paese registrerà una maggiore produzione di reddito e avrà una minore necessità di trasferimenti. Ancora oggi, però, lo scenario dell’area meridionale è quello di un territorio con scarsa qualità dei servizi collettivi, delle infrastrutture e della loro gestione, caratterizzata da una forte disoccupazione intellettuale e femminile e dalla presenza strutturale di una economia sommersa ed irregolare. A ciò bisogna aggiungere la ripresa dell’offensiva criminale, che sembra avere come obiettivo il controllo delle istituzioni e dei governi locali, come testimonia l’impressionante escalation degli attentati contro amministratori. Il Mezzogiorno e l’Europa L’Europa di Agenda 2000 è alle nostre spalle. L’allargamento a 25 Stati dell’Unione europea ha prodotto un’Europa molto diversa, più grande, dai confini estesi, in cui il divario tra ricchi e poveri è considerevolmente aumentato. Un nuovo sud, costituito dai Paesi dell’est, irrompe sulla scena politica ed economica. Le aree più deboli dei paesi dell’ovest, tra cui il meridione d’Italia, non si possono più considerare al centro delle politiche di coesione. L’Europa del futuro concentrerà le risorse per ridurre il divario con i paesi che sono appena entrati e quelli che si accingono ad entrare nell’Unione. Per il meridione d’Italia – per il quale è presente il rischio di un forte ridimensionamento della dotazione finanziaria – è necessario cambiare velocemente strategia, in previsione del progressivo esaurimento dei sostegni comunitari. Da ‘area assistita’, il sud dovrà ripensarsi ‘area in grado di assistere’ e di essere pertanto protagonista del processo di coesione con i nuovi Paesi membri a cui trasferire competenze e tecnologie. I socialisti europei, nella cui grande famiglia devono ritrovare legittima cittadinanza i parlamentari europei del Nuovo Psi, dovranno accompagnare questo processo, garantendo, intanto, nella fase di transizione e per tutto il periodo 2007 – 2013 alle regioni meridionali italiane il mantenimento delle risorse previste dalle politiche di coesione. In questo periodo, le regioni meridionali italiane dovranno diventare gli ‘strumenti’ operativi, anche per l’oggettiva vicinanza geografica, dei progetti di sviluppo dei Paesi mediterranei entrati nell’Unione, mettendo a disposizione lo straordinario capitale umano costituito dai giovani, dalle Università, dalle imprese. Il merchant bank Il merchant bank può essere una delle possibili risposte atte a ridar fiato alle piccole e medie imprese soprattutto del Mezzogiorno, poiché pongono soluzioni in termini di finanza etica e, al contempo, valide e innovative forme di investimento finanziario. Si tratta di fornire nuovi servizi di accompagnamento alle imprese sottocapitalizzate, in un sistema finanziario di risparmio solidale. I merchant bankers, infatti, individuano piccole imprese redditizie e le aiutano a crescere operando in base ad obiettivi sociali. Ciò anche al fine di riuscire a risvegliare, soprattutto nel Mezzogiorno, forme innovative di capitalismo finanziario in cui la partecipazione al capitale possa esser vissuta come portatrice di valori. Esse rappresentano alternative di microcredito che vanno al di là della semplice contribuzione ed assumono un significato di corresponsabilità di gestione in grado di sviluppare forme di sostegno economico trasparente e partecipativa. Tali investimenti, infatti, andrebbero nella direzione di un rilancio del settore della cosiddetta finanza etica. Fino ad oggi questo tipo di operazioni finanziarie sono state alquanto poche: pur essendo state spesso enunciate e strutturate in termini di principio, non hanno ancora raggiunto, il più delle volte, un vero e proprio bilancio sociale e non sono state messe nelle condizioni di operare in base a soluzioni di autentico capitalismo finanziario nel cosiddetto ‘terzo settore’. Il merchant banking, in effetti, necessita di una stretta collusione con il mondo dell’alta finanza. Ecco perciò che, sino ad oggi, il principio di partecipazione sociale alle imprese non ha visto una effettiva applicazione, e la trasparenza è stata spesso intesa nel senso della semplice pubblicazione periodica di informazioni obbligatorie. Tuttavia, tali metodologie potrebbero essere riviste e rivisitate in una chiave di interpretazione autenticamente riformista inserendo alcuni strumenti, come ad esempio quello del leasing finanziario. Quest’ultimo, ad esempio, costituisce una delle principali tecniche di collocazione contrattuale presso piccole società di intermediazione mobiliare che consente alle imprese di acquistare un capitale azionario già esistente, o di nuova creazione, per cederlo in locazione. Il locatario, a sua volta, pagando canoni periodici, alla scadenza del contratto può riscattare i titoli azionari pagando un prezzo finale predeterminato. Ciò consentirebbe alle imprese di procedere all’aumento di capitale anche in situazioni di carenza di risorse disponibili da investire. Questo genere di operazioni finanziare può essere sviluppato in varie direzioni: per ottenere finanziamenti sullo schema del sale and lease back (cessione della proprietà di un bene in cambio dell’uso del bene medesimo sino a tornarne in possesso alla scadenza del contratto); per creare società ad hoc per divenirne proprietari al termine della locazione; per permettere aumenti di capitale senza necessariamente aprire l’azionariato, graduando e rinviando nel tempo l’esborso relativo. La ratio di tutto ciò è dunque quella di incentivare la capitalizzazione di piccole e medie imprese attraverso nuove forme di leasing azionario. Tali finanziamenti, infatti, possono essere assai utili per aumentare il capitale delle imprese in vista di nuove ed ulteriori fasi di sviluppo della loro attività, oppure essere propedeutica all’apertura di queste verso il mercato dei capitali, rendendo più utilizzabili nuove forme di merchant banks attraverso effettive forme di locazione contrattuale e finanziaria. L’Università del Mediterraneo La necessità ormai improcrastinabile di uno sviluppo interculturale, integrato tra i Paesi del Mediterraneo, ci spinge a pensare ad un grande polo universitario intermediterraneo. Soprattutto affinché lo sguardo al Medioriente renda possibile ed attuabile, una politica non violenta e di integrazione delle diverse culture e tradizioni, evitando conflitti religiosi. I processi economici di globalizzazione comportano una crescita del ruolo della società civile nella politica dei diritti umani, ed è per questo che un polo universitario intermediterraneo può essere la soluzione a tali questioni, nonché il rimedio per evitare la fuga progressiva delle nostre migliori risorse. La cooperazione sui diritti umani tra i Paesi ed i popoli che si affacciano sul Mediterraneo può contribuire in modo determinante alla stabilità degli stessi rapporti politici ed economici di tutta l’area. E’ indispensabile un maggiore sforzo sul piano della ricerca, anche per favorire un nuovo sviluppo economico che guardi al nuovo mercato ed al futuro delle nuove generazioni. Due priorità: le connessioni con l’Europa e il ruolo delle città meridionali Il disegno di un Mezzogiorno capace di abbandonare lo storico ruolo di ‘regione sottoutilizzata’ dell’ovest europeo cozza con due debolezze che vanno velocemente superate: le difficoltà di connessione con l’Europa e con il mondo; la fragilità dei sistemi urbani delle città meridionali. La capacità di spostare persone e merci rapidamente, in modo efficiente e poco costoso, diventa essenziale per ogni ipotesi di sviluppo dell’area per contribuire in modo decisivo al superamento della congestione sulle strade e negli aeroporti europei. Compito dei socialisti italiani ed europei, sarà quello di concentrare gli sforzi sulla realizzazione dei due ‘corridoi’ transeuropei che interessano direttamente il meridione: il corridoio 1 Berlino – Napoli – Palermo, che comprende la realizzazione del ponte sullo Stretto di Messina; il corridoio 8 Bari – Varna, che con un sistema integrato di connessioni (strade e autostrade, porti, elettrodotti e gasdotti, cavi a fibre ottiche), collegherà l’Adriatico ai Balcani e al Mar Nero. Vanno incoraggiati i progetti per le due ‘autostrade del Mare’ che interessano l’Italia, quella occidentale e quella orientale, che vedrebbero esaltata la funzione dei grandi porti del Meridione, contribuendo a trasferire sulle navi almeno il 15% delle merci che circolano sui Tir. Da parte loro, le città meridionali continuano a presentare un assetto debole e fragile, incoerente con qualsiasi politica di sviluppo. Lo sviluppo, in tutto il mondo, parte dalle città in cui si concentrano le funzioni politiche e direzionali. Occorre che, nel quadro delle politiche di coesione nazionali ed europee, si punti a specifici progetti ed interventi che irrobustiscano e modernizzino il sistema urbano delle grandi città meridionali, dotandole di strutture per la mobilità e per la sosta di persone e merci, di collegamenti tecnologici, di centri per il sapere, la ricerca e la cultura. Fiscalità di vantaggio, creatività, corretta utilizzazione delle risorse: il Mezzogiorno come l’Irlanda Per il Mezzogiorno, allo scopo di attrarre investimenti e ricchezza, occorre creare condizioni speciali e fare leva sui modelli di sviluppo moderni ed innovativi, non realizzabili in un’area fortemente industrializzata come il nord. Tra le condizioni speciali, c’è sicuramente un regime di fiscalità, di vantaggio per le imprese che localizzino, con rigorose garanzie occupazionali, le loro iniziative nel sud. Le risorse europee, accompagnate da politiche regionali dinamiche, possono produrre significativi risultati come accaduto in Irlanda, Paese tra i più poveri 30 anni fa (il suo PIL era al 64% della media Ue) e che oggi vanta uno dei PIL più alti dell’Unione. Infine, puntare sulla creatività, sulla capacità di riprodurre nel sud servizi e beni materiali di alta qualità, portando la competizione non solo sul terreno dei costi. Tuttavia, per far questo, occorre investire molto sulla ricerca e sulla formazione dei giovani.
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