Date: 28/08/2005
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Scriveva Victor Hugo, scrittore francese, il 1 gennaio 1862: “Finchè esisterà, per colpa delle leggi e dei costumi, una condanna sociale che, in piena civiltà, crea artificialmente degli inferni e mescola al destino, che è divino, una fatalità umana; finchè sarà possibile in certe sfere l’asfissia sociale; in altre parole da un punto di vista ancor più esteso, finchè sulla terra vi saranno ignoranza e miseria, libri della natura di questo n on potranno essere inutili”. Il libro in questione era “I miserabili”, romanzo nel quale lo scrittore descrive la società del tempo dalla prospettiva della maggioranza degli uomini definiti in quegli anni, nel linguaggio di tutti i giorni, miserabili; vocabolo che esprimeva il concetto di pericoloso emarginato destinato a subire i rigori dell’istituzione giudiziaria. Hugo, per la prima volta, capovolgeva la semantica della parola applicandola alla categoria degli oppressi, alle vittime di questo stesso ordinamento sociale. Dopo cento cinquant’anni da quella storica affermazione, la miseria, “la cosa senza nome”perché la classe dominante si rifiuta di riconoscerla e quindi di nominarla, non è stata abbattuta ed anzi tende a ricrescere inesorabilmente, e l’istruzione sembra ritornata ad essere privilegio di pochi anche a causa del sempre più impoverimento delle scuole pubbliche a vantaggio di quelle private. Al contrario di quello che avveniva nelle oligarchie ottocentesche dove il diritto di voto e quello di governare si fondavano sul censo ed il grado di cultura, e quindi il risicato elettorato era formato da cittadini non preoccupati certamente dalla sopravvivenza, nelle democrazie moderne l’uguaglianza davanti al voto di tutti i cittadini ha posto l’ineliminabile dilemma del tipo di rapporto che viene instaurato fra la classe politica e coloro che la legittimano a governare. Soprattutto, diventa cruciale il modo in cui i politici si confrontano ed ottengono il consenso di quella parte della società che pur avendo il diritto di voto non ha un lavoro e per cui nulla da mangiare. E’qui la vera questione morale. E’qui che si misura la grandezza di una classe dirigente oppure la pochezza etica dei suoi esponenti. E’nel binomio inscindibile fra l’etica della responsabilità e la politica intesa come arte del buon governo del bene comune che si gioca oggi la sfida più grande per abbattere la miseria e l’ignoranza, i quali nella maggior parte dei casi sono la causa dell’immoralità dei nostri amministratori. Ma forse il guaio peggiore, oggi, non è nemmeno la povertà crescente, la quale in Italia ed in particolare nel nostro Sud vi è stata sempre in una certa misura, bensì la mancanza di una vera scuola politica deputata alla formazione della classe dirigente e dalla quale tutti dovrebbero passare prima di assumere responsabilità istituzionali. Nella prima Repubblica questo ruolo era affidato ai partiti i quali oltre ad assolvere il compito non facile di filtro fra le istituzioni e la società, avevano il lungimirante dovere di formare i ministri della cosa pubblica di domani. Ed ognuno, anche il più povero, aderendo a qualche partito, aveva la possibilità di emanciparsi culturalmente e magari aspirare, dopo una lunga militanza, a ricoprire un incarico istituzionale. Oggi, il vero nodo da sciogliere è l’assenza di sani e formati professionisti della politica, con buona pace del nostro Premier Berlusconi; le nostre istituzioni, i nostri enti pubblici sono governati da gente certamente professionale, plurilaureata che però, in molti casi, non ha mai conosciuto il dibattito pubblico, la dialettica anche violenta ma ispirata dalla passione ideale dei direttivi di sezione, il senso dell’appartenenza. Perciò, in Italia vige uno strano pluralismo politico: il moltiplicarsi di partiti e delle sigle e la sempre maggiore chiusura delle sezioni, l’inesistenza delle federazioni per concentrare tutta l’attività politica nelle amministrazioni. Tutto ciò ha causato, paradossalmente visto il continuo germogliare di essi, l’annullamento del ruolo dei partiti e di conseguenza della politica, la quale si riduce oggi a semplice scambio clientelare fra quei pochi che vanno a votare e coloro che tutto sono tranne che artisti della politica. Manca quel correttivo istituzionale, non scritto nella nostra Costituzione, che assolvevano una volta i partiti, imponendo ai propri amministratori le scelte da compiere nel governo della cosa pubblica; scelte che, al contrario di oggi, corrispondevano, nella peggiore delle ipotesi, alla conclusione di discussioni fra centinaia di iscritti. La soluzione della questione morale dipende tutta dalla capacità delle classi dirigenti dei partiti di dotarsi di regole etiche, dalla volontà di coinvolgere maggiormente gli iscritti nelle scelte istituzionali, nella valorizzazione e nella riapertura delle sezioni, dove la partecipazione dei cittadini e la loro conseguente e quotidiana passione politica possono rivelarsi il più efficace antidoto contro la mancanza di trasparenza nelle istituzioni. I partiti devono ritornare ad essere i baluardi della democrazia, i veri controllori dei governanti. Concludo con una frase del già citato Victor Hugo, lanciata il 17 Luglio 1849 all’Assemblea legislativa: “La sofferenza non può scomparire, la miseria deve scomparire. Vi saranno sempre degli infelici, ma può darsi che non vi siano più dei miserabili”. Alla politica la missione di eliminarla. Luigi Rocca- Direttivo Reg.SDI Calabria - Resp.Nazionale Storia e Filosofia del Socialismo della Costituente Nazionale PSE
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