Date: 06/02/2005
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PIERO, BETTINO E L’APPLAUSO CHE FA STORIA Alle cinque e tre quarti della sera risuona al congresso della Quercia il nome di Bettino Craxi. E per la prima volta nella storia del Pci, e poi del Pds e dei Ds, scatta l’applauso. Non un applauso particolarmente fragoroso, niente di paragonabile a quello che si era preso qualche ora prima (a dire il vero senza troppa fatica) Walter Veltroni citando Enrico Berlinguer. Ma è un applauso che in un certo senso fa storia. Come può capire facilmente chiunque conosca anche alla lontana le vicende della sinistra italiana. In ogni caso, un applauso per nulla scontato. Lo sa per primo Piero Fassino, che se lo è andato guadagnando con fare trepidante, parlando in fretta, con l’aria di chi deve togliersi un dente senza anestesia, ma anche scegliendo con grandissima attenzione le parole, perché l’occasione è solenne: un congresso, non un convegno, un dibattito, un’intervista. Allora: bene Romano, bene Massimo, bene Walter. Ma questo è, prima di tutto, il suo congresso. E a lui, che dice il vero quando giura di non appassionarsi più di tanto a stabilire ora a tavolino quale potrebbe essere l’approdo della Federazione dei riformisti, un soggetto politico tutto nuovo o chissà cos’altro, interessa soprattutto mettere in chiaro di che pasta è fatto, certo, ma anche, e prima ancora, da quale storia viene il riformismo suo e del suo partito. Solo da quella del Pci, di un partito che magari sarà stato riformista nei fatti, ma sul piano culturale e ideologico ebbe sino ai suoi ultimi giorni e persino un po’ oltre il riformismo in gran dispetto? Fassino la vicenda della sua vecchia casa, e della «comunità di donne e di uomini» (così si dice adesso dei vecchi partiti) che la abitava, non la rimuove e non la rinnega. Ma prende le distanze anche dall’antico adagio secondo il quale il Pci fu nel bene e nel male una sorta di versione nostrana dei grandi partiti socialdemocratici, l’unica socialdemocrazia possibile, vista la storia del nostro Paese e della sua sinistra. Fu, il Pci, una forza grande, certo. Ma «dentro una sinistra più larga». E in quella sinistra c’era anche «un’altra grande famiglia, che si è riconosciuta in due grandi partiti del socialismo riformista, da Turati a Nenni, da Saragat a Craxi». Fassino si è tolto finalmente il dente, esulta commosso Bobo Craxi, si compiace il socialdemocratico Giorgio Carta, e lo Sdi, per salutare l’evento, si concede una tantum la piccola gioia di ricorrere al lessico craxiano («Meglio tardi che mai»). Ma tutti colgono anche che ha un senso politico preciso la cura con cui quei nomi sono stati scelti, evitando di affiancarli a un elenco di grandi socialisti a vario titolo «unitari» nei confronti del Pci, da Rodolfo Morandi allo stesso Sandro Pertini. Turati, Saragat e Nenni (almeno dopo il ’56) con la vecchia famiglia di Fassino, come è noto, in nome del riformismo duramente si scontrarono: ma la loro riabilitazione l’hanno avuta da un pezzo. Quando Craxi, nel luglio del ’76, un millennio prima di Tangentopoli, divenne il segretario dei socialisti, Berlinguer disse: «Oggi una banda di gangster si è impadronita del Psi». Inserendo il suo nome nel Gotha del riformismo italiano, Fassino gli ha finalmente riconosciuto ciò cui fino alla morte Bettino ha tenuto di più: il suo onore politico. Si attendono i seguiti. Paolo Franchi Prima Pagina
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