Il misfatto compiuto a Mola di Bari, che occupò la prima pagina dei Giornali regionali e nazionali con edizioni straordinarie, evidenziò l’incapacità delle istituzioni liberali di porre freno all’assunzione della violenza come metodo di risoluzione dei problemi dell’Italia post-bellica.
Si deve ad un Maestro del diritto Enrico Ferri, che guidò il Collegio di difesa nel processo che si concluse a pochi mesi dall’avvento del fascismo senza giustizia e senza verità, la dimostrazione delle lacune dell’istruttoria e l’enunciazione della stretta correlazione tra "gli esecutori e cooperatori immediati del delitto e gli autori morali dello stesso".
Il grande Giurista evidenziò, in particolare, "la propaganda d’odio fatta con ogni mezzo dagli avversari di Di Vagno, e condotta sino all’estrema conseguenza di proclamare la necessaria soppressione di lui".
L’eco dell’omicidio dell’esponente socialista di Conversano raggiunse le comunità degli emigrati meridionali (affollate di seguaci del Socialismo) negli Stati Uniti e nel Sud America che per più di una generazione ne hanno tutelato il ricordo.
La revisione del processo, chiesto a gran voce da Di Vittorio, Nenni, Pertini nelle prime manifestazioni popolari dei partiti democratici dell’Italia libera, si concluse nel luglio del’47 solo con lievi condanne degli esecutori materiali del delitto.
Il Collegio di difesa degli imputati, costituito da esponenti di spicco della nuova destra pugliese con cavilli procedurali - tra cui l’opposizione alla richiesta di costituzione di parte civile dell’Assemblea Costituente - impedì la ricerca delle responsabilità degli istigatori morali del crimine.
La memoria del "gigante buono", come lo definì Turati, fu riproposta da Tommaso Fiore su Radio Bari, nei primi mesi del ’44, dove Di Vagno, Matteotti, Gobetti ed i fratelli Rosselli furono ricordati tra gli ultimi Difensori delle libertà e della giustizia sociale prima del lungo buio del regime.
Oggi i nomi delle strade e piazze di tante città pugliesi dedicate alla figura del Martire socialista costituiscono i pochi segni di quel travagliato periodo della storia nazionale.
In particolare spicca una lapide a Locorotondo, che più volte i fascisti tentarono di distruggere