Cari Compagni,
i socialisti hanno conosciuto l’assalto senza esclusione
di colpi nel biennio terribile del ’92-’94.
Cademmo
per tante ragioni ma una fu determinante: non
individuammo il punto di debolezza della nostra linea
politica post-’89. Il partito non volle capire che si
era chiuso un ciclo e che l’alleanza con la Dc non era
più rinnovabile.
Oggi le vostre polemiche interne e la vostra faccia feroce
verso l’esterno non vi fa vedere il punto critico dove
vive il vostro dilemma: essere ex-comunisti o essere
post-comunisti.
Un’ombra sta calando tra le rovine della 2° Repubblica:
il fattore S.-
S.
può
stare indifferentemente per Sinistra o per Socialismo.
Ma
dov’è la differenza tra l’attuale fattore S
ed il
desueto fattore K della 1° Repubblica?
I K potevano fare tutto, meno che aspirare al Governo
nazionale.
E infatti fecero di tutto ed in forma indiretta influirono
anche sulle decisioni del Governo nazionale.
Invece, per i sostenitori della nuova esclusione, gli S
possono essere forze di Governo e anche perno centrale delle
Istituzioni, ma devono perdere i legami con i presìdi reali
dei poteri legittimi in cui si articola la società.
Questa nuova conventio ad escludendum, a prima vista appare
pretestuosa, offensiva e volgare. Ma se si scava nel passato
si scopre qualcosa che, sia pure in forma labile, potrebbe
farci intravedere un principio di ragione
Con la 2° Repubblica emerse una classe dirigente del
novismo senza visioni e senza progettualità che si accoppiò
con i vecchi residui delle consorterie in declino.
La politica diventò debole.
Fu questa debolezza che trasformò i contrappesi
istituzionali in contropoteri politici e fu l’inizio di un
disordine di sistema che può rendere instabile e precario
l’ordine democratico.
Tra il ’92 ed il ’94 non vi fu una rivoluzione perché
non si volle rovesciare un ordine costituito, ma più
modestamente vi fu una rivolta per un ricambio di una parte
delle elités in nome di una dubbia catarsi morale.
Tre furono gli errori che i post-comunisti commisero per
fermare l’ondata antipartitocratica alla soglia della
propria casa:
1.
abbandonare il Psi al suo destino;
2.
partecipare alla liquidazione selettiva della D.C.
3.
agevolare la nascita di una destra populista e
qualunquista.
I post-comunisti lavorarono per la costruzione di un inedito
blocco sociale e politico che nel ’92-’93 prese in mano
le sorti del paese.
Questo blocco della purezza nazionale, era costituito dai
settori dell’economia internazionalizzati, dalla
BanKitalia, dalla Chiesa, da una parte della sinistra e dei
grandi apparati dello Stato.
Ma il blocco sociale e politico era
provvisorio e non organico ad una visione unitaria e non
accettava di essere subalterna ad una sinistra egemone.
Nel Pds, in quella torbida stagione del ’92-’94,
prevalse una scelta tattica: farsi guidare dagli altri per
non essere travolti dall’ondata antipolitica che loro
stessi avevano alimentato.
Ma questa è acqua passata.
Il problema di oggi è di capire se l’attacco ai Ds è la
riproposizione becera del vecchio fattore
K o è l’annuncio di un nuovo e più sofisticato fattore S.
Intanto, per non sbagliare, è bene sgombrare il campo dalle
ipocrite chiacchiere su politica e affari.
Se con la parola affari si intende il malaffare ed una
attività delittuosa e criminale, questa è materia di
competenza esclusiva dei giudici e riguarda la responsabilità
dei singoli.
Se, invece, con la parola affari si vuole fare riferimento
agli interessi economici che la politica nel suo esprimersi
premia o punisce, il rapporto tra politica e affari è
insopprimibile.
Altra questione, è quella relativa all’uso che la
politica fa o dovrebbe fare delle istituzioni.
Sull’uso politico delle istituzioni vi sono due patologie,
una nella destra e l’altra nella sinistra, sulle quali è
utile tenere accesi i riflettori.
Nella destra la patologia più grave è l’uso delle
istituzioni per sistemare le proprie vicende umane e le
proprie aspettative personali.
I casi frequenti di leggi ad personam sono un sintomo grave
di degrado istituzionale che ci riporta indietro di secoli
nel profondo dei regimi feudali.
Più complessa e più difficile è il caso che attiene
all’intervento del partito politico per piegare l’istituzione
a svolgere un ruolo di organizzatore democratico e di
integratore sociale nel quadro di un proprio progetto
politico.
E’ questo il modello del socialismo reale.
Nella prima Repubblica i partiti, fortemente intrisi di
ideologia visionaria e totalizzante, applicarono a se stessi
il dogma della doppia verità: una per lo Stato e un’altra
per i cittadini, una per il partito e un’altra per il
popolo.
Costruirono così nel proprio interno un modello di regole e
di comportamenti anticipatori del loro modello di società.
Ma nessun partito impose alla comunità nazionale una
anticipazione di modello di società.
Vi fu un solo esperimento su scala regionale: il modello
emiliano. Fu in Emilia che si costruì un esperimento di
socialismo reale garantito da diritti democratici più
formali che sostanziali.
Ciò fu possibile perché i comunisti utilizzarono
l’esperienza di un pranpoliniano riformismo reale
socialista fondato sulla filiera: municipio, partito,
sindacato, cooperativa.
Questa alleanza nel pre-fascismo era l’unica difesa
democratica possibile contro lo Stato autoritario e
centralistico.
Dopo il ’46, con l’avvento dello Stato repubblicano, la
forte egemonia politica del Pci trasformò l’istituzione
municipio in sede operativa della integrazione politica e
sociale della comunità.
Su questo caso Bologna molto si è scritto e poco si è
fatto per contrastarlo.
Due furono i tentativi di intervento.
Nel 1956 la Chiesa e la Dc con la candidatura di Dossetti a
Sindaco di Bologna in contrapposizione al Sindaco Dozza,
scesero in campo per “liberare
Bologna dal clima soffocante dello stalinismo”.
L’altro tentativo fu fatto dalla giovane classe dirigente
emiliana del Psi nel 1980 nel clima del dopo Moro.
I socialisti partendo da una analisi corretta e documentata
che vedeva il Pci emiliano omologare il sociale attraverso il controllo delle istituzioni, denunciò
una situazione di
fatto che aveva distrutto ogni dialettica tra istituzioni
rappresentative, partiti,
movimenti sociali e forze economiche.
Il ruolo unico del personale dirigente che poteva a
rotazione passare dal municipio al sindacato, dal partito
alla cooperativa chiudeva il cerchio di una democrazia
organizzata per una totale integrazione politica e sociale.
La potenza di tale integrazione fece fallire
tutti e due i tentativi e solo oggi riemerge la questione
perché è in crisi il modello emiliano.
I post-comunisti hanno davanti due soluzioni:
o liberare la società emiliana dai vincoli del socialismo
reale e integrato, o estendere il modello emiliano
all’Italia.
La prima scelta liquiderebbe e definitivamente il
fattore K, la
seconda opzione farebbe nascere il fattore S.
I Ds devono smetterla di raccontarci la storiella sui figli
del Dio minore.
Devono prendere atto che sono i figli di un Dio fallito.
Si diceva una volta che il socialismo è come l’amore: non
ha bisogno di parole, deve essere sostenuto da prove.
Liquidare il modello emiliano vuol dire rifiuto definitivo
della società organica nella quale le istituzioni
rappresentative, la magistratura, l’informazione, la
cultura, le banche, l’economia, i partiti e i sindacati
sono i componenti di un unico Kombinat organico.
Una forza credibile della sinistra di governo può
parlare con tutti e può anche trattare con tutti alla luce
del sole, ma
deve portare rispetto per l’autonomia di ogni altra forza
che gioca con le regole della democrazia e del mercato.
Cari Compagni,
se da questa prova non volete uscire sconfitti ed umiliati
dovete affrontare la battaglia culturale del revisionismo
che è la negazione del vostro continuo svoltare.
Come ex comunisti meritate ogni rispetto, come
post-comunisti non troverete alleanze.
La politica può tornare solo con la politica. Il
patriottismo di partito è un surrogato senza mercato.
Fraterni saluti
Rino Formica
Roma,
9 gennaio 2006
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