Nel 1962, mentre il Pci attacca frontalmente l'alleanza politica tra
socialisti, laici e democristiani, accusando i primi di tradimento e di
cedimento alle forze conservatrici, il centro sinistra realizza, con la
nazionalizzazione dell'energia elettrica, la più incisiva e traumatica
tra le sue riforme, reggendo una campagna di aggressione senza
precedenti condotta dalla grande stampa, dalla Confindustria, dal mondo
economico in genere.
L'obiettivo della
nazionalizzazione non è avviare la demolizione del libero mercato. E'
quello di cancellare le discriminazioni tariffarie, spesso presenti a
danno del Mezzogiorno, per un bene, l'energia elettrica, che rappresenta
la prima condizione dello sviluppo industriale. L'obiettivo è erogare
l'energia non secondo la logica del profitto a vantaggio dell'erogatore,
che potrebbe non coincidere con gli interessi generali del Paese e delle
imprese, bensì secondo una logica di programmazione e di sviluppo.
L'unico danno all'economia
nazionale, semmai, lo hanno causato le società ex elettriche, che hanno
perso una grande occasione perché non hanno saputo né voluto investire
con successo, in altri settori, l'enorme liquidità incassata con gli
indennizzi. A riprova di quanto sia facile predicare la retorica della
libera imprenditoria quando si realizzano profitti in posizione di
oligopolio iperprotetto e sia invece più difficile misurarsi, senza
rete, sul mercato. Gli ex monopoli elettrici infatti ottengono dallo
Stato una somma colossale per i tempi: 1. 500 miliardi. Soltanto poco più
della metà è investita in settori produttivi, e anche questa metà non
dà buoni frutti. Un bel saggio di ciò che può accadere fornendo i
capitali a propagandisti del vetero capitalismo, ma non a veri
capitalisti.
Nel clima di oggi, l'aggressione
contro il sistema dei partiti, la esaltazione di qualunque impresa
privata e la demonizzazione di qualunque impresa pubblica,
indipendentemente dai risultati, per principio, costituisce una
manifestazione di conformismo. In questo clima, appare straordinaria la
capacità, allora dimostrata dal centro sinistra, di scontrarsi su una
cosi importante nazionalizzazione, con il potere economico. Eppure,
mentre ingiustamente si carica di significati ideologici e pregiudiziali
la presunta contrapposizione tra pubblico e privato, si dimentica che la
statalizzazione dell'enerrgia elettrica, avvenuta d'altronde in paesi
non certo collettivisti, come la Gran Bretagna o la Francia, è stata in
Italia l'unica determinata da una scelta politica. Tutte le aziende
pubbliche sono tali perché i privati che precedentemente le
controllavano sono falliti e lo Stato si è sobbarcato il compito di
salvare l'occupazione e risanare i bilanci.
Così, ancora ai tempi del
fascismo, è nato Iri. Mentre l'Eni si è sviluppato quasi dal nulla,
dotando l'Italia di una industria petrolifera internazionale
indispensabile al suo sviluppo. Naturalmente, si può valutare
l'opportunità o meno di vendere aziende e beni pubblici ai privati. Ma
ricordando un episodio significativo. Nel 1985, Craxi, nella sua qualità
di presidente del Consiglio, bloccò la vendita del gruppo alimentare
Sme a De Benedetti, già pattuita per 400 miliardi