TORINO - Con Norberto Bobbio scompare la coscienza critica della
sinistra
italiana. E' stato l' 'oracolo' al quale, periodicamente, e soprattutto
nei
momenti piu' critici della recente storia italiana, politici e
intellettuali
della sinistra hanno fatto ricorso. Sempre sorprendendoli, gettando nel
pensiero politico l' inquietudine di chi - come lui - sentiva di
appartenere
alla categoria di uomini che non sono mai contenti di se stessi.
L' eredita' della riflessione politica lasciata da Bobbio alla sinistra
italiana e' riassumibile in una 'via' che lui stesso ha chiamato ''la
politica dei diritti''. Storico e fautore del socialismo liberale (o del
suo
equivalente liberalsocialismo) Bobbio, il 2 gennaio 1992, sulla 'Stampa'
da'
questo segnale di svolta: ''La formula socialismo liberale e'
semplicistica
e ambigua. Io ho seguito un' altra strada: e' la via piu' concreta, e
anche
emotivamente piu' eccitante, della politica dei diritti, degli uomini e
delle donne, dei bambini e dei vecchi, dei malati e degli emarginati, in
difesa di tutte le minacce che possono venire alle liberta' e alla
dignita'
dell'uomo dall' irresistibile e irreversibile progresso tecnico.
Di fronte a una nuova carta dei diritti cadrebbero tutte le differenze
artificiose e sempre piu' ridicole, fra comunisti, ex comunisti,
socialisti elle varie denominazioni, che, dividendo la sinistra, l' hanno sempre
indebolita''. Il 7 novembre '98 Walter Veltroni, segretario dei Ds,
sintetizza cosi' la gratitudine di tutta la sinistra verso Bobbio: ''Gli
siamo debitori. Se la sinistra ora e' al governo in molti Paesi d'
Europa lo
dobbiamo a uomini come Bobbio''.
Pochi mesi prima del successo di Forza Italia nelle elezioni del '94 che
portarono Silvio Berlusconi alla guida del Paese, esce un' opera che
rinverdisce la notorieta' di Bobbio come politologo: ''Destra e
sinistra''.Nel volume il filosofo pone il discrimine tra i due schieramenti. Nel
suo
sogno politico, una democrazia dell' alternanza ''senza fascisti ne'
comunisti'' (La Stampa, 11 dicembre '94), Bobbio afferma che lo spazio
della
sinistra si esprime in quella ''tendenza a rimuovere gli ostacoli che
rendono gli uomini e le donne meno uguali''.
Il concetto e' ribadito il 6 luglio '95: ''Il senso della storia delle
sinistra e' uno solo: il perseguimento, non mai definitivo, della giusta
societa'''. Cinque mesi prima, alla ristampa di 'Destra e sinistra'
(dopo
240 mila copie vendute) aveva scritto: ''Sino a che vi saranno uomini il
cui
impegno politico e' mosso da un profondo senso di insoddisfazione e di
sofferenza di fronte alle iniquita' delle societa' contemporanee, questi
terranno in vita gli ideali che hanno contrassegnato da piu' di un
secolo
tutte le sinistra della storia''.
Centrali, nella militanza intellettuale di Bobbio, sono gli interventi
sulla
pace e sulla guerra. Senza pace non trovano espressione, per Bobbio, sia
la
democrazia sia il libero esercizio dei diritti umani. Di fronte a uno
stato
aggressore, come quello di Saddam Hussein che viola il diritto
internazionale, Bobbio parla di ''guerra giusta'', arrivando pero' a
definire ''odiosi e indegni di una nazione civile'' i bombardamenti
americani su Baghdad avvenuti piu' tardi, nell' estate del '93, per
ritorsione contro il fallito attentato a George Bush in Kuwait.
Il suo si' alla ''guerra giusta'' e' sempre travagliato. Per nulla
affascinato dal parallelo fatto da alcuni tra Hitler e Milosevic, il 15
aprile del '99 Bobbio dice alla rivista 'Liberal' che il tiranno ''deve
essere abbattuto'', sospendendo pero' il giudizio sull' azione bellica.
Il
16 maggio, sulla 'Stampa', scioglie la riserva, ridando fiato ai critici
dell' intervento armato: ''Assistiamo ad una guerra che trova la propria
giustificazione nella difesa dei diritti umani, ma li difende violando
sistematicamente anche i piu' elementari diritti umani del Paese che
vuole salvare''.
E', infine, con le lenti del politologo che Bobbio guarda al ''tragico
enigma'' della presenza del male nella societa'. La conclusione e' quel
pessimismo che, il 7 dicembre '94, gli fa dire, come l' uomo semplice:
''Inquesto mondo non c'e' giustizia''.
Ansa
CASO PARMALAT -
INTERVENTI |
Il caso Parmalat è stata indubbiamente la notizia più
importante di queste ultime settimane, capace di far passare in secondo
piano anche le tragiche vicende dell’Iraq o del conflitto israeliano –
palestinese. Il danno economico per Parma e l’Italia intera è ingente,
ma è sembrato passare in secondo piano rispetto allo scontro sulle
responsabilità in merito, da un lato, ai mancati controlli delle autorità
preposte, e, dall’altro lato, alle critiche che sono piovute da una
parte della stampa anglo-americana nei confronti dell’Italia.
La responsabilità dei mancati controlli, o dei
controlli insufficienti, vede sostanzialmente la Banca d’Italia ed il
Ministero del Tesoro scambiarsi reciprocamente accuse, con qualche
incursione della Consob. Non è uno spettacolo edificante, anche perché
il tempo e le indagini ci chiariranno eventuali omissioni. Per il momento,
considerata la gravità della vicenda e il bene del Paese, istituzioni così
importanti come quelle che ho citato, farebbero bene ad andare d’accordo
e a rimandare le loro polemiche ad altra occasione.
Più
delicato, invece, è il discorso relativo alla stampa internazionale. Se
molti media si sono limitati a dare la notizia della crisi di una società
ritenuta sicura fino a pochi mesi fa, alcuni sono andati oltre.
Soprattutto il Financial Times, da cui sono stati riportati interi
brani sui “nostrani” Corriere della Sera e Repubblica.
Qualcuno ha anche provato a spiegarci cosa ci sia dietro tanto odio nei
confronti dell’Italia, perché è di questo che si tratta. Vorrei
provare brevemente a risalire alla radice di queste critiche ingenerose
nei nostri confronti.Partiamo
dal presupposto che il modello anglo-americano è caratterizzato da:
grandi o grandissime imprese (spesso a carattere multinazionale) dove il
potere dei dirigenti è molto elevato, e talvolta la proprietà azionaria
e frammentata tra tanti risparmiatori e fondi diversi. La finanza è molto
più sviluppata che da noi, anche perché non esiste praticamente nessuna
media o grande azienda che non sia quotata nelle Borse Valori di questi
Paesi. Negli Stati Uniti, poiché le pensioni sono in gran parte
amministrate da fondi pensione (che sono tra i principali investitori sui
mercati), e la sanità è in gran parte finanziata da grandi compagnie
assicurative, che figurano anch’esse tra i grandi investitori, la
conseguenza è che la ricchezza della nazione e il benessere di molti
privati cittadini dipende dall’andamento della Borsa e dei mercati
finanziari. Insomma, se vanno in crisi alcune delle più grandi aziende,
non è un problema solo per i
loro lavoratori ed i loro azionisti, ma anche per tanti cittadini che si
ritrovano senza soldi per pagarsi cure sanitarie e vecchiaia. A meno che
non intervenga lo Stato, naturalmente, in modo da consentire che cure
sanitarie e pensioni vengano pagate regolarmente. Questo spiega anche
l’enfasi posta sulle regole finanziarie: che una grande impresa
americana sfrutti gli immigrati irregolari ed i bambini (come succede
soprattutto nei ricchi Stati del Sud a forte incidenza di popolazione nera
o ispanica) passi, ma che emetta obbligazioni senza copertura non è
ammissibile: ne va della sostenibilità dell’intero sistema.
Il
sistema italiano è diverso: le imprese, anche quelle medie o grandi, sono
spesso a carattere familiare, più o meno aperte all’esterno, ma con
un’amministrazione finanziaria del tutto differente. Molte imprese di
media o grande dimensione non sono quotate in Borsa, motivo per cui la
nostra è la piazza finanziaria più piccola di tutto il G-7. Le banche,
da noi, sono molto più potenti dei fondi pensione o delle assicurazioni,
e, poiché tendono a stabilire rapporti fiduciari di medio e lungo periodo
con le imprese nostrane, ciò dà stabilità al sistema. Il prezzo che si
paga è quello che i controlli sull’intero sistema imprenditoriale sono
insufficienti: la Consob ha poteri d’ispezione solo sulle 285 società
quotate, contro le restanti 1,5 o forse 2 milioni che restano fuori dal
mercato azionario. Una goccia nel mare. E quando pure possono indagare,
come nel caso della Parmalat, certamente trovano problemi a muoversi tra
le isole Cayman (possedimento della Corona britannica, cari amici
inglesi), noto paradiso fiscale, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, gli USA e
il Brasile.
Purtroppo,
nonostante le grandi differenze tra i due sistemi economici e finanziari,
c’è ancora chi crede (o ci vuole far credere) che sia possibile
applicare regole e procedure simili tra le due sponde dell’Oceano. Non
è così, e naturalmente questo vale anche per il resto dell’Europa
continentale, molto più vicina al modello italiano che a quello
anglosassone.Il
sistema anglosassone, profondamente influenzato dal conservatorismo
protestante dei puritani (quelli che negli Stati Uniti si chiamarono
“Padri Pellegrini”), da noi non attecchisce. Il risparmio, che pure in
Italia o in Germania è molto più diffuso che in Gran Bretagna o negli
USA (dove anzi c’è la tendenza opposta, quella ad indebitarsi), è un
risparmio prevalentemente familiare, di chi mette da parte qualcosa per
gli studi dei figli, per una piccola pensione integrativa di quella da
lavoratore dipendente od autonomo, di chi vuole pagarsi un viaggio in un
Paese lontano, quando avrà un po’ di tempo a disposizione. Gli
italiani, mediamente, non speculano in Borsa e non ne sentono il bisogno
(il che spiega anche il grande attaccamento all’investimento immobiliare
con qualsiasi congiuntura economica), perché le loro pensioni,
l’istruzione dei propri figli, la sanità e tanto altro ancora sono
finanziati dallo Stato Sociale.
Questa
è la grande differenza tra modello continentale e modello anglosassone:
da noi, le obbligazioni di società private trovano molto meno mercato che
negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, e ancor di più vale il discorso per
altri prodotti finanziari, ben più aggressivi e rischiosi. E infatti
Parmalat ha collocato oltre l’80% dei propri titoli sui mercati
stranieri.
L’ha
fatto da sola? Certamente no, c’è voluto l’aiuto delle banche
d’affari, lo stimolo delle agenzie di rating internazionali, la
compiacenza di società di revisione contabile internazionali, che hanno
fatto passare per buoni dei bilanci da crimine organizzato. Sono tutti,
senza eccezione, attori stranieri, prevalentemente anglo – americani.
Quindi,
con tutta evidenza, e come ricordavano recenti articoli apparsi su Repubblica,
tra queste istituzioni internazionali vanno trovati i “compagni di
merende” di Calisto Tanzi e di Tonna. E invece, almeno finora, sono
proprio questi lupi, travestiti da agnelli, quelli che si lamentano di più.E’
stato detto che lo Stato italiano si attiverà per salvare l’azienda
Parmalat e i risparmiatori. Queste sono le priorità, esattamente
nell’ordine in cui le ho citate: prima salvaguardare gli onesti
lavoratori Parmalat in Italia, poi i risparmiatori italiani e stranieri.
Quanto ai dipendenti stranieri, soprattutto in
Sud America, si dovrà agire d’intesa con i governi locali, in
primo luogo in Venezuela e Brasile.
Tutto
il resto è assolutamente secondario: i presunti danni alle banche
d’affari americane e alle agenzie di rating internazionale vanno
accuratamente verificati. Se queste persone hanno trovato finalmente
qualcuno più svelto e furbo di loro, questo non è tema che può
interessare al Governo italiano, né è possibile che il contribuente
italiano sia chiamato a rimetterci di tasca sua per rifondere gli affari
sballati di “lor signori”.Restano
le minacce esplicite del Ft, che non vanno assolutamente
sottovalutate, vista anche la fonte da cui provengono. Esiste il forte
rischio che le grandi istituzioni finanziarie internazionali, scottate dal
caso Parmalat, e avendo ormai capito di aver perso molti soldi e parecchia
credibilità, decidano, un po’ per prudenza, ma un po’ anche per
vendetta, di ritirarsi dal mercato italiano, lasciando il nostro piccolo
mercato finanziario ai margini del mondo sviluppato. In queste condizioni,
potremmo non essere in grado di catturare la ripresa economica, quando
questa dovesse ripartire. Ma naturalmente, visto che l’economia globale
non è ancora ripartita, non è il caso di fasciarsi la testa prima di
essersela rotta. Si dovranno studiare quelle soluzioni adatte a
rassicurare i risparmiatori nazionali e stranieri (non le banche
d’affari) e rendere ancora più allettante investire in Italia. Dopo di
che, se gli gnomi della finanza internazionale vorranno veramente
tenersi alla larga da uno dei più grandi mercati mondiali, vuol dire che
accoglieremo a braccia aperte gli investitori provenienti da Russia, Cina
ed altri Paesi emergenti, i quali hanno una gran voglia d’investire da
noi, e certamente meno spocchia nel darci lezioni morali. A maggior
ragione quando, peraltro, scopriamo che i nostri fustigatori sono
corresponsabili del disastro di Parmalat.
Stefano Amoroso
– Resp. Politica Europea ed Internazionale della
Costituente
Pse